Amore, ingiustizia e nemesi in Lubo di Giorgio Diritti

Una storia che corre sulle ali dell’immaginazione, caratterizzata da una cornice (quasi) noir, che mette a fuoco una reale vergogna storica, tra le tante nefandezze perpetrate nel secolo scorso contro le popolazioni nomadi, in questo caso gli Jenisch, di origine germanica e pelle chiara, terzo gruppo europeo per numero dopo Rom e Sinti. Un film, Lubo, con il quale Giorgio Diritti segue strade narrative in apparenza diverse dal consueto, ma che invece non si allontanano dal tema da sempre centrale nel suo cinema: per cui da una parte c’è il “diverso”, che in quanto tale è escluso dalla comunità, osteggiato, se non addirittura vessato e combattuto; dall’altra il sistema che lo opprime, arrogandosi un diritto che non ha, in nome della tutela propria o di sedicenti interessi superiori. Succedeva in Il vento fa il suo giro (2005), in cui il pastore straniero Philipphe non si integra nella comunità della Val Maira alla quale era approdato,  costretto a tornare sui propri passi. E accadeva con figure da nessuna parte a proprio agio come Augusta, la giovane protagonista di Un giorno devi andare (2013), o il pittore Antonio Ligabue, su cui è costruito Volevo nascondermi (2020). Forse, soltanto L’uomo che verrà (2009), che affronta da una prospettiva laterale la famigerata “strage di Marzabotto”, si stacca da questa contrapposizione di fondo; ma in esso sono comunque rintracciabili diversi elementi di connessione con Lubo, a cominciare dall’idea che una ferocia mostruosa e cieca (là incarnata da un’ideologia refrattaria all’umanità, qui da principi folli e leggi inique che discriminano su base etnica) inneschi il male che poi “si espande – come ha argomentato lo stesso Diritti parlando del suo lavoro – come una macchia d’olio nel tempo, penetrando nelle vite degli uomini, modificandone i percorsi e i valori, generando dolore, rabbia, violenza, ambiguità”.
 

 
Lubo Moser (il Franz Rogowski già apprezzato in Undine, Freaks Out e Disco Boy, superlativo) è un artista nomade che viaggia su un carrozzone con la famiglia, esibendosi nei villaggi dei vari cantoni svizzeri. Nel 1939, Lubo viene richiamato nell’esercito svizzero, che rimpingua le sue fila nel timore di un’invasione tedesca. Da uomo abituato alla libertà, fatica però a digerire il rigore militare, pur cercando in ogni modo di resistere. Almeno fino a quando non scopre che sua moglie è morta nel tentativo, vano, di impedire che i loro tre figli venissero destinati al programma di “rieducazione nazionale” noto come “Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse”, attuato secondo i deliranti principi dell’eugenetica ai danni dei nomadi stessi per cancellarne la cultura (sebbene venisse presentato come un modo coattivo per favorirne l’integrazione). Allora diserta e, sfruttando l’opportunità offertagli da un misterioso faccendiere, commette un crimine che gli permette di avere denaro in abbondanza e una nuova identità; condizioni che gli consentono di cercare i propri figli, dati in adozione, e contestualmente di porre in atto una personalissima azione di contrasto alle politiche eugenetiche. Finché non intravede nella reietta Margherita – che cresce a fatica un figlio con il lavoro da inserviente in hotel – la possibilità di una nuova vita, di un ritorno all’amore. Ma la catena del male è aperta, e quando il passato torna a bussare alla porta di Lubo Moser, lo fa senza gentilezza.
 

 
È stata la lettura rivelatrice del romanzo Il seminatore, scritto nel 2003 da Mario Cavatore (che con esso esordì nella letteratura a 56 anni, trasponendovi la propria esperienza personale, e di segno positivo, con gli zingari), a far nascere in Diritti la voglia “di riflettere sul senso di giustizia, sulle istituzioni, sul senso dell’educare e dell’amare”. Mescolando alcuni elementi del libro e introducendone molti altri, che fanno perdere un po’ di coerenza all’insieme, il regista bolognese non pare interessato allo sviluppo del filone principale messo nel mirino da Cavatore (sintetizzato nel titolo del romanzo) e nemmeno a mantenere a lungo la suspense, anche se questa consegue naturalmente alla scelta di non dire e non mostrare (troppo), ma semmai di suggerire; è piuttosto alla definizione del contesto, alla caratterizzazione del protagonista (di cui non giudica mai le azioni, limitandosi a narrarle) e al faticoso manifestarsi dei sentimenti, che egli dedica tutta la sua attenzione. Lubo, personaggio sfaccettato e complesso, conserva fino in fondo la sua dolorosa distanza da tutti e da tutto (anche se c’è un momento, nel film, che potrebbe far pensare a sviluppi tipo quelli de Il ritorno di Martin Guerre o del suo remake holliwoodiano, Sommersby), vendicatore spietato e cercatore inesausto, costretto a fare i conti con la realtà. I difetti del film sono di misura: meno laconico che altrove, Diritti dilata la narrazione quasi fino alle tre ore di durata, con uno svolgimento eccessivo anche se dinamico, che si slabbra un poco nella seconda parte, meno incisiva di quella iniziale. Ma la prima metà del film ha fascino e forza, qualità che gli consentono di vivere di rendita fino al traguardo.