Anime senza bandiere: Disco Boy di Giacomo Abbruzzese

Anime vaghe, fantasmi della contemporaneità: chi conosce il cinema di Giacomo Abbruzzese (Fireworks, This Is the Way, Stella Maris, I santi…), non si stupisce certo dinnanzi alla presenza così immanente eppure così spirituale di Alex, il protagonista di Disco Boy, il suo primo lungometraggio di finzione, in Concorso a Berlino 73. Alex è un corpo senza storia, figura tremula di un tempo senza più bandiere, un dannato della rassegnazione che raccoglie in sé quel senso di disappartenenza di cui è intriso il nostro presente. Nasce nel segno dell’emigrazione, giovane bielorusso che attraversa l’Europa da clandestino e infrange la sua euforia di libertà sul guado sbagliato di un fiume, dove il suo amico muore. Lui resta a metà, come un’anima pendula, persa per le strade di Parigi, senza più nome ma con un corpo da vendere alla Legione straniera: sangue, sudore e polvere da sparo al servizio di una patria avida di sacrificabili. Ma non è tutto qui, perché Disco Boy è in realtà un film fronte/retro da leggere controluce, sulla trasparenza che vede Alex attraverso il suo opposto: Jomo, giovane nigeriano che, al contrario di lui, è invece uno che sta, che resta sulla sua terra e combatte per essa. A capo di una banda di ribelli in lotta contro lo sfruttamento petrolifero del Delta del Niger, condivide con la sorella, Udoka, la vita in un villaggio che è tutto ciò che resta loro. La ragazza in realtà vorrebbe partire, andare via, ma lui è uno spirito stanziale e combatte. Il corpo a corpo tra Jomo, che ha rapito un francese, e il legionario Alex, inviato per liberarlo, è una danza che Giacomo Abbruzzese risolve nell’astrazione della visione termica, macchie di colore che accendono lo schermo e sublimano il sangue.

 

 

Ma non la morte… Quello che segue è una sorta di sogno, la fuga onirica di Alex in cui Udoka appare in una discoteca come una silver lady sciamanica e risveglia in lui lo spirito indomito di Jomo, spingendolo ai limiti del suo destino: disco boy…Giacomo Abbruzzese lascia che il film si avviti su se stesso, segue le pulsioni di una narrazione trasognata, in cui gli eventi seguono più le ragioni dello spirito di quelle della realtà. Potrebbe anche essere tutto un sogno, magari proprio quello sognato da Jomo e i suoi compagni che dormono, accucciati nella giungla, nella prima scena del film: onirismo sintattico che annuncia un film scomposto nel suo pulsionale parallelismo tra gli elementi fisici, reali, e quelli astratti, spirituali. Alex e Jomo sono le due medaglie della stessa faccia: campioni che si oppongono al destino assegnato loro dalla Storia, allo stesso tempo fuggitivi e combattenti. Giacomo Abbruzzese li tratta puntando sulla sua straordinaria capacità di produrre un senso simbolico degli eventi che si proietta nella statura dei suoi personaggi. Ai quali, per quanto perdenti e marginali essi siano, il regista assegna sempre una pietas che garantisce loro una statura etica ed epica. Disco Boy vibra di tutto questo, lavorando su una struttura visiva che scolpisce luoghi e figure sottraendo realtà e incidendo la loro dimensione fisica grazie anche alla fotografia della grande francese Hélène Louvart. La colonna sonora techno di Vitalic batte il ritmo della modernità, mentre Franz Rogowski mette in Alex la sua dolcezza un po’ stranita, creando un doppiofondo di coscienza fondamentale per il personaggio.