Il mostro di St. Pauli di Fatih Akin e la decomposizione nel ripostiglio della Storia tedesca

Un’altra donna, morta. Giace sul letto di un fetido appartamento di St. Pauli, il quartiere a luci rosse di Amburgo. Siamo negli anni ’70 e il suo carnefice, che si accanisce su di lei prima di farla a pezzi, è Fritz Honka, uno dei serial killer più famosi nella storia criminale tedesca: quattro vittime accertate prima che un incendio nel suo appartamento ne facesse scoprire i resti decomposti, stipati in un ripostiglio. Fatih Akin ricorda che i suoi genitori evocavano a lui bambino Honka come fosse l’uomo nero: uno spettro nell’immaginario tedesco degli anni ’70, che il regista esorcizza in The Golden Glove (“Der goldene Handschuh”, Concorso). Film durissimo, nel cui senso del grottesco si incide la vera ferita sociale che il regista turco-tedesco intende scrutare con determinazione. Un’altra donna morta, come fosse il contraltare del folle sacrificio vendicatore cui si consegnava Diane Kruger nel finale di Oltre la notte, il film precedente di Fatih Akin. Tutte vittime di un odio endemico nel corpo della società (tedesca), sintomi ai quali Akin dedica un’attenzione partecipe e non compromissoria.

In The Golden Glove non è tanto Honka, il mostro, a interessare il regista con la sua stolida violenza, quanto il mondo che attorno a lui si muove assurdo e cieco, la progenie di disgraziati che staziona, ubriaca di noia e insensibilità, nel fetido bar in cui Honka reclutava le sue vittime. Ed esse stesse, prima ancora di essere vittime del mostro, sembrano vittime della loro condizione disperata, residuati della Germania postbellica, incarnazioni di una decomposizione in corso nel ripostiglio della Storia tedesca. Fatih Akin è molto chiaro in questa descrizione, non mostra particolare pietà per nessuno, nemmeno per la graziosa ragazzina che, simbolo marchiano di purezza impossibile, attraversa il quartiere assieme al suo imbranato compagno di scuola, spettro delle fantasie di Honka destinate a riversarsi nella violenza che riservava alle vecchie prostitute che riusciva a portarsi a casa. Come se ondeggiasse tra il senso di disperazione del Lang di M e il cinismo ostentato di Urlich Seidl, in The Golden Glove Fatih Akin cerca la definizione di un universo in cui l’orrore promana dalla scena piuttosto che dai corpi e dalle azioni che essi agiscono o subiscono. Il rimando langhiano, ovvio, evoca per contrasto l’assenza di un corpo sociale che si frapponga tra il mostro e se stesso, le sue azioni, la sua innocente colpevolezza. Nella maschera eccessivamente deforme che Akin applica al suo Fritz Honka si celebra l’ipertrofica deformità del mondo che lo circonda, le figure degli ubriaconi che, rimarcate come terribili macchiette, occupano lo spazio del bar, orribilmente gioviali nella loro felicità beota. Le canzonette popolari tedesche degli anni ’70 che pervadono il locale si proiettano poi nel chiuso della soffitta di Honka, dove invece si celebra il rito di una violenza accettata e subita dalle vittime: quasi una configurazione seidleiana della stolida società germanica contemporanea. In tutto questo Fatih Akin si muove cercando l’eccesso, caricando gli elementi simbolici, i caratteri, le figure, la scena: la ricostruzione del quartioere di St. Pauli è evidentemente plastica, proprio come la maschera di Honka applicata sul volto di Jonas Dassler. Ma non è tanto questo il problema di un film che, proprio come il precedente Oltre la notte, non è propriamente riuscito: The Golden Glove soffre per una sceneggiatura che si avvita sui suoi elementi senza svilupparli se non il chiave simbolica, incide la narrazione ipertroficamente, dilungandosi e reiterandosi nella serialità del killer protagonista. E’ come se Akin si fosse fermato a distanza da una scena, da personaggi, da storie che lo inorridiscono. Manca la carne, il respiro, la vera puzza di quel mondo in decomposizione.