Berlinale72 – Lo sguardo punk di 2555.01 di Norbert Pfaffenbichler

Quello di Norbert Pfaffenbichler 2555.01 è un film “a metà” o, meglio, come indicano le didascalie poste sulle immagini finali, il primo episodio (come già suggerisce quello “01” del titolo), chiamato The Kid, di un’opera della quale si annuncia il seguito (“Don’t miss Episode 02 Orgy of the Damned”). Ma è pure un film in sé compiuto, che apre e chiude una storia. Il regista austriaco, nato nel 1967 a Steyr, è anche un artista visivo e un curatore e la sua filmografia è tutta nel segno di una sperimentazione che si immerge nella storia del cinema con uno sguardo densamente personale. Ha dedicato film a icone dell’horror come Lon Chaney e Boris Karloff. In 2555.01 (alla Settimana della critica di Berlino), titolo misterioso i cui primi quattro numeri si immagina facciano riferimento all’anno in cui il film è ambientato, “gioca” con il cinema di Charlie Chaplin (lo aveva già fatto in due suoi cortometraggi) e, in particolare, Il monello (The Kid), realizzato nel 1921 e “omaggiato” a cento anni di distanza. Protagonisti di 2555.01 sono infatti un uomo e un bambino. Non hanno nome, come tutti gli altri personaggi che si aggirano attorno a loro. L’adulto salva il bambino rimasto solo nel mezzo di una violenta azione poliziesca contro dei manifestanti e lo porta via con sé. Per i due inizia una deambulazione senza fine nei sotterranei di una città devastata, abitata da reietti, esseri marginali che “vivono” in condizioni disumane in una città, e in una società, reduce da un qualche accadimento apocalittico.

 

 

Pfaffenbichler lavora su immagini e musica. Niente parole. Il film è muto e in bianconero. Ci si può sbizzarrire nella ricerca di citazioni perché Chaplin e Il monello rappresentano soltanto la superficie di un’operazione che rimanda a una moltitudine di fonti. Cinema punk, quello di Pfaffenbichler, stroboscopico, ad alto volume, viaggio agli inferi ma con umorismo, segni profondi di grottesco, indicazioni precise di un degrado umano che non ha nulla, in questo senso, di distopico. Infatti, tra i tanti “quadri” che compongono il film alcuni sono di una lucidità “documentaria” nel ricordarci la barbarie dei nostri tempi attuali. Il riferimento è alle immagini che mostrano, in una stanza, corpi incatenati e torturati in una posa identica a quella delle tristemente celebri immagini filmate nel carcere iracheno di Abu Ghraib dove i militari americani, comprese delle soldatesse, laceravano le membra dei prigionieri di guerra arabi. Così, dietro l’ambientazione fantascientifica, horror, di un mondo dove tutti sono senza volto, coperto da maschere, sacchi, caschi, o hanno facce dai tratti d’animali, emerge il ritratto spietato della società odierna, un ammonimento a quali derive potremmo andare incontro come estrema conseguenza delle attuali polarizzazioni in corso ovunque nel pianeta. Film politico, dunque, 2555.01, che fa pensare al David Lynch di Eraserhead, al Luc Besson della sua opera prima Le dernier combat, ai necrorealisti russi, agli scienziati pazzi e ai loro esperimenti in cliniche-manicomi, alle famiglie cannibali di Tobe Hooper… – e, dentro tutto, al cinema muto qui evocato anche dalle manipolazioni cromatiche, dai viraggi che in diverse scene prendono il posto del bianco e del nero tradizionale e già anch’esso ri-messo in gioco.