La persona peggiore del mondo di Joachim Trier e la rischiosa arte della divagazione

Julie si avvicina ai trent’anni ma il senso di irrequietezza che da sempre la accompagna non sembra essersi affievolito. Brillante ma incostante, ha lasciato gli studi in medicina per abbracciare la psicologia – affascinata più dall’anima che dal corpo – per poi finire a reinventarsi come fotografa, perché si sente una “persona visuale”. Insomma, una dilettante in continuo divenire, una che desidera trovare un posto nel mondo provandone cento, agendo su di sé con accumuli di esperienze. L’unico apparente baricentro nella sua vita dissipata è Aksel, un disegnatore di fumetti underground, più grande di età e più certo delle proprie convinzioni. Ma presto anche Aksel, soprattutto quando inizia a proporre prospettive di figli e stabilità familiare, comincia a starle stretto, a soffocarla, a porla di fronte a scelte che Julie preferisce rimandare per esorcizzare lo scorrere del tempo. E Julie affronta anche questa crisi come sempre ha fatto: imboccando una porta girevole, entrando a una festa di sconosciuti e iniziando un gioco di seduzione con un giovane uomo di cui ancora non sa il nome. Altro giro, altra corsa, e la vita può continuare. Joachim Trier con The Worst Person in the World  (a Cannes74) conclude la sua trilogia di Oslo – iniziata con Reprise e continuata con Oslo, 31. August – portandola su toni apparentemente più lievi, costruendo un romanzo di mancata formazione su un personaggio femminile volubile e forte, contraddittorio eppure vitalissimo.

 

 

I modelli sembrano essere addirittura quelli della commedia classica americana, con opportune declinazioni e dilatazioni di tempi e ritmi. Il film usa dei meccanismi tradizionali – la suddivisione in capitoli, la voce over – per poi ribaltarli dall’interno e trovare un proprio ritmo, una voce narrativa. Alterna toni da romantic comedy a momenti di puro cinema esistenziale, strappa una risata per poi rincorrere l’umoralità spigolosa di Julie. Al centro di questa ronde sghemba e costantemente fuori tempo c’è sempre lei, Julie – Renate Reinsve, magnetica nel suo continuo movimento a vuoto -, giovane donna che cercando la perfezione si autorelega a una sorta di perenne dilettantismo, nella vita e nei sentimenti. Julie è alla continua ricerca di approvazione pur manifestando, anzi ostentando, la propria indipendenza; affronta le relazioni familiari con un sarcasmo che nasconde profonde fragilità; in amore sembra sempre comandare subendo invece l’egocentrismo di chi la circonda, che a volte si dimostra ancora maggiore del suo.

 

 

Trier non ha paura di cambiare registro, di osare scene che mescolano allucinazioni lisergiche e animazioni volgari, sogni e incubi, sesso e dialoghi sentimentali. Il filo a volte si perde, l’arte della divagazione comporta dei rischi, il quadro ogni tanto si sfoca. Ma il centro emotivo del film, l’imprendibile Julie, è un personaggio che non si dimentica, capace di costruire un contatto di empatico nervosismo con chiunque la sfiori, compresi noi spettatori. Perché, pur sentendosi in perenne controtempo, pur lasciando macerie relazionali ogni volta che si affida alla sua cronica insoddisfazione, pur non salvando o potendo salvare nessuno, neanche se stessa, Julie non è certo “la peggiore persona del mondo” ma è solo una giovane donna che cerca di rimettersi in pari con la propria vita, che si paralizza nel disperato tentativo di recuperare il tempo perso, che crede nell’ironia ma accetta il dramma, che subisce il giudizio degli altri nell’impossibilità di accettare quello di se stessa. Insomma: Julie, con i suoi pregi lampanti e i suoi grossolani difetti, è in fondo una di noi.