Il vampirismo umanista di Ariane Louis-Seize alle Giornate degli Autori di Venezia80

Gruppo di famiglia vampirica in un interno: inizia così, come la più classica delle commedie horror, magari nemmeno troppo distante dalla Vita da vampiro di Taika Waititi, e la sensazione è rafforzata dal chilometrico titolo, Vampire humaniste cherche suicidaire consentant. Il fulcro della discussione tra parenti riguarda la piccola di casa, Sasha, che pur soffrendo la tipica sete di sangue, è animata da un sincero sentimento di pietà per il prossimo e non intende in alcun modo uccidere un essere umano per procurarsi il nutrimento a lei necessario. Ma a mettere in crisi la sua ferrea convinzione arriva Paul, adolescente solitario e bullizzato dai compagni di scuola, che per questo medita il suicidio e si dichiara disposto a sacrificarsi come cibo per lei. Il percorso di progressivo cambiamento (interiore e esteriore) della protagonista finisce così per coinvolgere l’intero film, che abbandona in fretta i toni più sovraeccitati per farsi attenta analisi dei disagi adolescenziali. L’idea di esorcizzare la paura della morte, si accompagna all’analisi delle pulsioni giovanili e ai sentimenti più amplificati rispetto alla vita, tipici dei ragazzi di quell’età. Sasha e Paul diventano perciò dei moderni hikkikomori, chiusi nelle loro convinzioni che solo la conoscenza reciproca metterà in discussione, attraverso un rapporto di condivisione d’intenti, accompagnato da un timor panico per la conoscenza del corpo: se entrambi mantengono sempre una distanza che sembra quasi un aggiornamento appena meno radicale di quello tenuto dai personaggi di I WeirDo, va anche notato come tutto il percorso di Sasha, non a caso, si giochi anche sulla crescita dei celebri canini, da sempre un leitmotiv della natura sessuale del vampiro, che la ragazza inizia a manifestare solo in rapporto al compagno.

 

 

Il film muta pertanto in una storia di avvicinamento fra personaggi estremi, che l’esordiente regista Arian Louis-Seize affronta con rara sensibilità e tenerezza, lavorando sui toni chiaroscurali impressi da una recitazione sussurrata, quasi un codice fra le due anime sole. La regista del Québec utilizza il formato Scope nel senso della larghezza e della profondità di campo per riflettere proprio il senso della collocazione dei ragazzi rispetto al mondo (in primo o in secondo piano, distanti o vicini). Un universo “chiuso”, fatto di pochi esterni (la scuola, il bowling, le case di famiglia), sorta di microcosmo “bolla” che rinnova l’idea della prigionia interiore. Allo stesso modo, il film opera sul tempo, che diventa materia argillosa e plastica, in grado di accomunare una vampira di sessant’anni a un ragazzo di sedici, in triangolazione con le persone più mature che sentono la fine più vicina.

 

 

Il mix di nera ironia e sensibilità da melodramma adolescenziale, rende Vampire humaniste una delle più efficaci rivisitazioni del tema, sorretto da una Sara Montpetit che è la migliore versione non ufficiale di Mercoledì Addams mai passata sullo schermo. Sasha e Paul, nell’apparente stoicità dei loro caratteri infelici, investono in tal modo lo spettatore lavorando su una gamma emotiva ampia, che chiama in causa l’empatia come sentimento per comprendere il mondo, portando in dono la pietà per il dolore, ma anche la rabbia per una realtà che di quel sentimento ha perso il valore, ravvisabile tanto nel bullismo degli studenti animati da logiche del branco, quanto dalla famiglia che non si pone alcun problema circa la necessità di uccidere gli umani. Il ritratto che ne emerge è dunque sì divertente, ma chiaroscurale e comunque animato da luci di grande sensibilità, in grado di far risaltare il film come un titolo moderno e di potenziale culto. Lo conferma anche l’accoglienza trionfale alle Giornate degli Autori di Venezia80.