FilmmakerFest – Notti randage a Melilla: Nuit obscure – Au revoir ici, n’importe où di Sylvain George

La geolocalizzazione è fondamentale nel cinema di Sylvain George, ma la questione sociale che questo filmmaker ogni volta affronta è diffusa, parla tutte le lingue, va da Calais al Medio Oriente, dall’Africa alla Spagna… È una cartografia dei diritti umani violati, quella che il documentarista sperimentale francese affronta con furore e rigore sempre determinato, mai stremato, anche se il suo filmare è spesso una prova di forza con la realtà estrema in cui si cala. A Locarno76 c’era in Concorso Nuit obscure – Au revoir ici, n’importe où, secondo volet di un progetto che l’autore sta portando avanti da una decina d’anni a Melilla (nel 2022 a Locarno era presentato fuori concorso il primo: Feuillets sauvages. Les brûlants, les obstinés). Questo nuovo capitolo consta di 183 minuti strappati al bianco e soprattutto al nero profondo della notte di Melilla, la città autonoma della Spagna sulla costa orientale del Marocco: poco meno di 400 chilometri a est di Ceuta e 180 chilometri a sud dalla costa spagnola, Montril. Una traversata di qualche ora, che i ragazzini marocchini filmati da Sylvain George sarebbero anche disposti a fare a nuoto (c’è chi l’ha tentato, chi ha perso la vita provandoci) o anche nascosti in qualche camion diretto verso l’Europa.

 

 

Il regista li filma a grado zero, in piani ravvicinati nudi e crudi che insistono sulla grana grossa, sporca, delle immagini: il punto focale è Malik, ma è il gruppo di cui fa parte a offrire ossa e carne alla mappatura delle loro notti nelle strade di Melilla, lungo le mura della fortezza, sulle strade del porto, braccati dai poliziotti, in cerca di cibo, rubando tempo e vite alle strade deserte. È quasi una postazione del presente quella che Sylvain George ci offre anche in questo secondo capitolo del suo progetto marocchino, che rispetto al furore militante dei lavori con cui si è imposto (il formidabile L’Impossible – Pages arrachées ha ormai poco meno di quindici anni) sembra nutrire quasi la necessità di accompagnarsi ai suoi soggetti, stazionare nelle loro ore e nei loro giorni, sgusciare assieme a loro tra le maglie di una società civile che li bracca e li caccia mentre li lascia liberi di essere corpi randagi che si accucciano su una spiaggia, che usano i tombini come nascondigli per le loro cose (scarpe, coperte).

 

 

Il film è scritto nella reiterazione dell’osservazione di gesti e azioni uguali, che non hanno una progressione perché sono prigionieri della condizione di libera prigionia in cui stazionano questi ragazzini. Quasi a seguire il loro tempo, che è azzerato, inesistente, bloccato perché le loro storie, le loro vite non appartengono alla Storia, restano ostentatamente sconosciute alla coscienza del nostro mondo. E allora l’atto di Sylvain George di filmarle e riproporle nella lunghezza infinita di tre ore diventa quasi la rivolta narrativa di un film che decide di costringerci a stare nel tempo immoto di questi ragazzi randagi che stanno alle porte dell’Europa: per una volta ancora visibili, protagonisti, corpi e non ombre a parte.