Le caselle ci sono tutte: il mistero, l’equivoco, personaggi ambigui, imprevisti e la provincia senza tempo. L’uomo nel bosco soddisfa fin dal principio tutte le aspettative esaltando ancora una volta la complessità di cui il regista Alain Guiraudie è straordinario cantore. Un giovane guida lungo strade solitarie fino ad arrivare in un paese tra le colline occitane. Si tratta di Jérémie che torna a Saint-Martial per il funerale del fornaio del posto, che in gioventù è stato il suo mentore (e non solo). Ecco il nucleo centrale del nuovo film di Alain Guiraudie: l’arrivo di un soggetto estraneo in una piccola comunità che si fa causa di tutto ciò che accade, innescando processi da cui sarà impossibile tornare indietro. Come in Teorema, ma con tutte le differenze che il ricorso ai generi comporta. Perché nel film di Guiraudie c’è un’adesione al noir che ci riporta indietro a Lo sconosciuto del lago, con venature di commedia, speculazione filosofica, thriller psicologico, dramma esistenziale sfiorati e superati grazie al suo sguardo di autentico osservatore degli ambienti e dei suoi amati personaggi. Guiraudie si sofferma sull’aspetto morale che coinvolge e scuote i protagonisti, pone domande senza cercare risposte definitive (il titolo originale, d’altra parte, è Miséricorde, con tutto l’umanesimo che la misericordia comporta).
Si scopre lentamente che Jérémie amava il panettiere defunto, al punto da non riuscire a smettere di pensare a lui. E ora, il suo ritorno, dopo tanti anni trascorsi a Tolosa, è avvolto da un mistero che i colori dell’autunno esasperano. Il desiderio, si diceva, muove tutti i gesti, e non solo quelli di Jérémie, che è l’oggetto dei desideri di un parroco anticonvenzionale, che gestisce a suo modo temi come colpa, rimorso, perdono. Tra loro si parla di libertà di amare e di essere amati, o meglio, di accettare di non essere amati da chi si ama, si parla di imparare ad amare e di stratagemmi per curare le inevitabili ferite dell’anima, mentre Vincent, nella sua gelosia, innesca il conflitto che sottende, forse, un desiderio ancora più forte. In tutto questo, la vedova Martine, senza parole, semplicemente agisce, creando connessioni, sotterfugi, non detti, finendo, proprio nella scena finale, per portare allo scoperto la fitta rete di manipolazioni cui è stato sottoposto il manipolatore Jérémie, che guarda ed è guardato. Ed ecco l’ironia leggera di un “percorso narrativo” che si muove su territori scivolosi. Il vagare del protagonista, le visite notturne da parte di Vincent e del gendarme, gli incontri calcolatamente fortuiti nel bosco, dove tutti vanno in cerca di funghi (compresi quelli che spunteranno con insistenza dove è stato nascosto un cadavere…). L’impressione è che il mistero che serpeggia in questo film sia un dispositivo necessario a sovvertire le regole cui siamo abituati, presentandoci i sentimenti nella loro tenacia, ma anche fragilità e convincendoci che la verità non è sempre più importante della misericordia.