Ventotto anni sono passati da quando un’epidemia di rabbia in grado di colpire l’organismo degli esseri umani ha sconvolto il pianeta facendo regredire le proprie vittime a esseri animaleschi assetati di sangue. Il mondo ha reagito e ha ritrovato la sicurezza a caro prezzo. Il Regno Unito è infatti in quarantena, una terra di nessuno abbandonata a sé stessa, una prigione a cielo aperto le cui coste sono pattugliate da navi militari. Sull’isola di Lindisfarne, a nord est dell’Inghilterra, una piccola comunità sopravvive dietro una palizzata difensiva procurandosi le poche risorse di cui dispone grazie alle incursioni che compie sulla terra ferma. Jamie (Aaron Taylor-Johnson), uno degli isolani, accompagna il figlio Spike (Alfie Williams) nella sua prima traversata dopo che questi ha raggiunto l’età per uccidere il suo primo infetto. Il rito di passaggio significherà molto per il ragazzo, un ingresso nella vita adulta traumatico a più livelli che lo cambierà per sempre. L’hype per questo terzo capitolo della saga firmata da Danny Boyle iniziata con 28 giorni dopo, complice anche un secondo capitolo, 28 settimane dopo, rivelatosi non all’altezza del primo che è considerato un classico dell’horror contemporaneo, era alle stelle.
28 anni dopo è stato infatti presentato come un grande film, in grado di superare persino il primo dei tre. Quindi, il risultato è all’altezza delle aspettative? La risposta è sì. 28 anni dopo è il capitolo migliore e il motivo ha un nome e un cognome: Alex Garland. La sua mano si vede eccome, nella sceneggiatura ma non soltanto. A livello visivo infatti l’impronta di Civil War, penultima pellicola che lo ha visto nel ruolo di regista, è ben chiara, specie in una scena centrale in senso tematico presente in ambedue i film, quel momento onirico e di rallentamento che rappresenta l’attraversamento di una soglia da parte dei protagonisti che entrano definitivamente nel cuore della tenebra parte e abbracciando il cambiamento che li rende e abbracciando il cambiamento che permette loro di sopravvivere in essa. Una scena, in 28 anni dopo, di grande potenza, fatta di fuoco e di mucchi di ossa, onirica e orfica, uno snodo narrativo critico e indimenticabile.
D’altronde Civil War e 28 anni dopo sono due film molto simili, quasi gemelli. Raccontano il collasso e il ritorno dell’umanità a una dimensione più ferale, primitiva, a un contatto più diretto con la morte e con la necessità di sopravvivere come presenza quotidiana e urgente. In entrambi i casi l’arco narrativo dei personaggi corrisponde con l’evoluzione del mondo che li circonda in una sorta di reset alle impostazioni di fabbrica in cui le sovrastrutture crollano quando proprio non possono più resistere e quel che rimane è la dimensione inevitabile della lotta. La transizione verso il ferale è raccontata con un montaggio frenetico, febbrile, quasi ballardiano in cui la ferocia si palesa in squarci di rosso, occhi brillanti e mandibole che masticano carne nel buio della notte in una poetica che non è puramente funzionale alla trama ma si prende del tempo per comunicare su un livello puramente estetico la dimensione della ferocia e dell’istinto. Come Civil War, anche 28 anni dopo ricorda Cuore di tenebra, di Conrad, all’inverso, perché qui non c’è ritorno alla civiltà, non c’è nemmeno la scelta di compierlo, il viaggio perché la tenebra è venuta da noi e non possiamo fare altro che attraversarla. Boyle e Garland ci raccontano questo, una storia di formazione, in cui crescere significa accettare la morte per ritardarla di un giorno ancora.