She Came to Me: Berlinale73 apre con la forza dell’arte di Rebecca Miller

Funzioni dell’arte e disfunzioni della vita, o viceversa, poco importa: sia l’una che l’altra sono questioni d’ispirazione, di fulgore creativo che ti assale e c’è poco da fare, nel bene e nel male… Visto così She Came to Me, il nuovo film di Rebecca Miller che ha inaugurato la Berlinale 73, è un oggetto affascinante, ha la volatilità di una storia in cui i personaggi vivono d’arte e d’amore e tanto vale mantenerli in questa sfera. Vedetelo come una fiaba, la versione easy di Annette di Carax… Siamo a New York, oggi, e c’è Steven, un compositore di opere liriche (interpretato da Peter Dinklage con densità alla Nick Nolte) che vive nell’incubo introflesso della sua creatività, perennemente insoddisfatto, o meglio convinto che il pubblico non può amare la sua musica. Sua moglie Patricia (ovvero Anne Hathaway, ironica e raggiante) è una psicanalista che suscita trasfer nei suoi pazienti senza farsene un cruccio e gestisce con paziente determinazione l’ansia di Steven di non essere amato. Patricia ha un figlio dal precedente matrimonio, Julian, brillante adolescente alle soglie del college che vive una splendida storia d’amore con Tereza, sua compagna di scuola. Il caso vuole che la ragazzina sia anche la figlia di Magdalena, la donna delle pulizie di Patricia, già di suo un po’ bigotta, ma soprattutto sposata con Trey (Brian d’Arcy James che potrebbe fare la Malvagia Strega dell’Ovest), un fascistoide con la mania del controllo e la passione per i reenactment della guerra di secessione, che non gradisce l’amore troppo disinvolto dei due ragazzini. Come salvarli dalle sue grinfie?

 

 

Lo schema ordito da Rebecca Miller (sua anche la sceneggiatura) è quello classico di una fiaba in forma di commedia contemporanea: i personaggi lasciano svaporare le loro funzioni in un sistema di riferimento tematico contemporaneo, dove però si materializzano in continuazione giochi d’ombre fuori tempo, meccanismo classici e/o archetipali ai quali si torna senza colpo ferire. Su tutti aleggia infatti la figura stupendamente incongrua di Katrina (Marisa Tomei forever!) che come una tempesta soffia il suo imprevedibile spirito vitale su tutto questo tormento. Incontrata da Steve in un bar di sottordine, Katrin vive a bordo del peschereccio di cui è la comandante, soffre di una sindrome da romanticismo cronico che la fa innamorare facilmente e, dopo averlo placidamente sedotto, ispira a Steve l’opera che gli restituisce il successo. Ma non è che l’inizio, perché il suo ruolo ha ben altre destinazioni, tutte legate al compimento del destino di ognuno dei personaggi in gioco in questa sorta di pochade imborghesita, che parte un po’ confusamente ma poi trova la sua ratio proprio in quell’eccesso di fragore che i caratteri si portano dietro. Rebecca Miller gioca sempre sul collocamento instabile dei suoi personaggi, tutti sospesi su trame esistenziali che cercano un equilibrio: She Came to Me segue l’onda e la lascia riversare con fragore sull’assetto del film, facendosi ispirare un flusso che nella seconda parte e nel finale soprattutto diventa affascinante e divertente. Si finisce fuori dal tempo tra scenari passati ricostruiti nel presente e visioni operistiche fantascientifiche, mentre l’amore si salva su un battello come fossimo nell’Atalante di Vigo. Nulla di eccedente, ma ci si affida con piacere a questa confusione che mette ordine nel mondo con la forza dell’arte.