Su Netflix The Midnight Sky di di George Clooney e gli abissi dell’io

Chissà come sarebbe stato The Midnight Sky senza la pandemia, sopraggiunta a riprese ultimate e subito prima di montaggio e post-produzione. Sicuro è che il settimo film da regista (oltre che attore e produttore) di George Clooney si presenta come una riflessione profonda delle conseguenze disastrose delle azioni dell’uomo sul pianeta Terra. Scritto da Mark L. Smith, già autore di Revenant, The Midnight Sky è l’adattamento cinematografico del romanzo La distanza tra le stelle di Lily Brooks-Dalton, che diventa qui la rarefatta ricostruzione del rapporto tra un padre e una figlia nel solco sottile scavato tra allucinazione, reltà, sogno, desiderio. Nel momento in cui per lo scienziato Augustine Lofthouse non c’è più speranza di vita sulla Terra (“ci siamo sbagliati” ripete più volte senza mai svelarci i dettagli) i suoi pensieri si rivolgono al passato. Non più l’ossessione di studiare e garantire il futuro all’umanità, ma il rimpianto degli affetti sacrificati e pronti a riaffiorare in forma di visione salvifica. Si pensa a Gravity e Interstellar, ma con le tracce di un materialismo malinconico che lascia strascichi e ferite nei pensieri e nel corpo. Come il protagonista di Ad Astra che, da figlio, torna a fare i conti con il padre che fu un pioniere dello spazio. Certo, Clooney non si spinge lontano come James Gray negli abissi neriopachi dell’animo umano, salva la vita (anche se lontano dal nostro pianeta), ma al tempo stesso esalta il ritorno come passo indietro intriso di umanità ed eroismo, che rimette tutto in ordine senza strappi, mentre per Gray era amara disillusione.

 

 

Perché nei due blocchi narrativi che procedono paralleli, è come se si compissero un viaggio di andata e uno di ritorno. Da un lato lo scienziato malato terminale, rimasto solo nella base scientifica in Antartide, nel tentativo di comunicare con l’esterno, dall’altro lo spazio infinito da cui fa ritorno, appunto, la navicella spaziale Aether, dopo una missione di anni per raggiungere un satellite di Giove adatto alla vita. Due traiettorie, dunque, in un continuo e astratto andirivieni temporale, tra flasback, sogni, flashforword. E se l’impossibilità effettiva del ritorno da parte degli astronauti permette a Clooney di capovolgere le regole del genere, non ci crede abbastanza da accumulare pathos e coinvolgere lo spettatore in un racconto tragico, non abbastanza da eccedere la realtà e liberare l’energia in catarsi. Il perseguimento dell’armonia – tanto formale quanto ideale – distende sul film una sorta di calcolata distanza, un velato e persistente ottimismo che, però, non si addice alla crisi di un uomo davanti al proprio fallimento. Isolato, sepolto tra tempeste di ghiaccio e silenzio, Augustine guarda il cielo e incontra se stesso (il suo volto si riflette ripetutamente sulle sperfici liscie e scure, tra arredi ed enormi finestre), sua figlia bambina e adulta, nell’attesa che arrivi un segno dalle stelle che, invece, arriverà dal cielo di mezzanotte, l’abisso più profondo del suo io.