Su Sky Lei mi parla ancora, di Pupi Avati tra quotidianità familiare e atto creativo della memoria

Come direbbe Totò: a prescindere. A prescindere da tutto, dal racconto di una vecchiaia conclusione di una vita felice, scandita da un amore immortale, dalla solitudine nella quale si piomba allo scomparire degli affetti coniugali, a prescindere dalla malinconia della storia, comune a quella di molte altre che la cronaca rimanda nella sua eclatante normalità, a prescindere dalla famiglia di cui viene raccontata la storia, divenuta per ragioni diverse e tutte ben note, in qualche misura tra quelle che contano nel panorama culturale-politico italiano e a prescindere, quindi, da tutto questo e da quanto altro si potrebbe aggiungere, qui è del film e non di altro che si deve parlare. Il cinema di Pupi Avati ha sempre avuto l’inclinazione a gettare lo sguardo all’indietro nel tempo, perfino quando ha lavorato attorno a un’idea ben precisa e poco frequentata dal cinema italiano, quel genere definito gotico “padano” che, soprattutto agli inizi di carriera, ha frequentato con esiti positivi. Il regista bolognese è portatore di una specie di germe proustiano segnato da un provincialismo marcato (per chiarezza qui in una accezione esclusivamente geografica e quindi depurata da sottolineature negative o positive). Questa sua inclinazione si è variamente atteggiata nella sua filmografia, diventando scandaglio di caratteri dei suoi personaggi, divenuti generosamente e inaspettatamente piccoli eroi di una vita semplice e mai rilevante per il prossimo, delegando al cinema il compito di darne rilievo, restituendo così dignità a quelle esistenze, ovvero come declinazione e caratterizzazione semplicistica delle loro indoli, sconfinando, a volte, nel macchiettismo insopportabile e invero anche inconcludente.

 

 

Non si smentisce il Pupi Avati della avanzata maturità con Lei mi parla ancora, prodotto e visibile su Sky, nel quale il germe “proustiano” di cui si parlava trova (o, meglio, avrebbe potuto trovare), forse, il terreno fertile per una sua definitiva fioritura dentro la quale dare forma anche ideale a queste inclinazioni. Il film con la sua materia offriva la possibilità di assegnare la filmografia dell’autore ad un cinema nel quale la memoria non è solo meccanico atto del ricordare, ma si espande in quella intimità la cui narrazione è nelle corde di Avati, catturando l’atto creativo della memoria, che è la verità profonda che sedimenta nelle parole di Cesare Pavese che fanno da guida al film. A Pupi Avati va riconosciuto il merito non solo di avere radunato attori di differente estrazione (Renato Pozzetto, Fabrizio Gifuni e Isabella Ragonese, senza contare le poche inquadrature dedicate a Stefania Sandrelli e Alessandro Haber e facendo peraltro ricomparire sullo schermo Chiara Caselli e Gioele Dix) con una nuova operazione di reinvenzione attoriale, qui riferita al sempre sottovalutato Renato Pozzetto, come in altre occasioni è accaduto nella sua filmografia, quando ha saputo riscoprire profili nascosti dei suoi attori (Abbatantuono e Delle Piane) restituiti ad una differente dimensione rispetto a quella solita conosciuta dal grande pubblico, facendo riscoprire nuove e tacitate sensibilità, venute alla luce con la fiducia assegnata e un lavoro sicuramente coraggioso.

 

 

Lei mi parla ancora, ispirato al romanzo omonimo di Giuseppe Sgarbi, racconta della lunga e intensa storia d’amore vissuta dall’autore con la moglie “la Rina”. Grazie alla figlia la vicenda amorosa culminata nel lungo legame coniugale deve diventare un libro ed è lei stessa, editrice, ad affidare l’incarico ad uno scrittore un po’ in crisi. Questi avrà il compito di mettere “in bella copia” i ricordi del padre dopo la scomparsa della madre, consegnando così quella immortalità del ricordo che è l’unica possibile forma di resistenza al tempo nella mortalità della vita, come insegnava lo scrittore piemontese. Il racconto del film ripercorre i 65 anni dell’amore che la coppia ha vissuto, attraverso i fantasmi del passato e le amarezze del presente. Solo a tratti si fa immersione nel passato e in quegli scorci si intravedono le conferme definitive, delle inclinazioni della poetica di Avati a sigillo di una lunga e notevole carriera. Una filmografia nella quale ha saputo raccontare, con gli alti e i bassi delle tonalità che ha usato, anche quella provincia così invisibile e fatta di piccole cose, senza diventare mai epigono di nessuno, neppure di chi sulla provincia ha costruito un archetipo di sogni e di desideri. Lei mi parla ancora diventa in questa visione divisa tra presente e passato, con naturale destino, un film che si affida alla memoria, al ricordo come lenitivo alla mortalità della vita. In Un’altra donna del 1988, uno dei suoi film intimisti, Woody Allen fa porre alla sua protagonista la domanda cruciale: Il ricordo è qualcosa che hai o qualcosa che hai perduto? È lo sciogliersi di questo dilemma il punto di svolta per una definizione del ricordo, della memoria, all’interno di quel complesso e articolato sovrapporsi di emozioni e quindi, a stabilirne il destino. La soluzione del problema non è univoca, ciascuno di noi ha la sua e non è neppure detto che, sciolto una volta l’enigma, lo stesso non si ripresenti sotto altre spoglie, esigendo una diversa e opposta soluzione. Avati con il cinema, come già Proust in letteratura, hanno provato a trattenere il ricordo, la memoria attraverso le scritture, di immagini per il primo e di parole per il secondo. Solo così il ricordo può diventare terraferma, rifugio dell’anima e consolazione della vecchiaia. Lei mi parla ancora in soldoni, mette in scena questo processo di archiviazione vivente, di feconda memoria per il futuro affinché tutto non resti che lettera morta, con dentro l’esigenza di fare diventare quell’esperienza patrimonio generalizzato. Ma è come se Avati si fosse quasi spaventato di lavorare attorno a questa magnifica idea e non abbia insistito se non a tratti – i migliori del film – proprio su questa visione di (ri)costruzione della memoria, su questo processo che non è solo mnemonico, ma lavorio rivitalizzante e in parte anche sconosciuto. L’avere messo in scena solo eventi – la morte della moglie, i funerali, i dettagli delle vicende familiari dello scrittore incaricato di raccogliere le memorie e tutto il resto che serve solo a narrare piccoli o grandi eventi personali, ma in fondo la quotidianità, va a scapito di quella ricerca sui processi creativi ed anche emotivi della ricerca della memoria, della sua ricostruzione, della sopravvivenza del ricordo, del ricostruirsi dei fili che legano le vicende. Non a caso la memoria diventa spesso forma letteraria attraverso l’autobiografia e qui la scrittura si fa momento creativo e traduttivo del ricordo. Altrettanto non a caso i momenti più intensi del film, sono proprio i dialoghi brevi (purtroppo) tra Pozzetto e Gifuni, le elaborate incursioni in quel passato fatto di fantasmi “reali” che parlano ancora e suggeriscono la via. Sono quelli, tra l’altro i momenti più belli anche sotto il profilo qualitativo dei dialoghi. Il film che possiede una sua indubbia forza emotiva, in questa riconoscibilità del familiare quotidiano, non riesce, però, a catturare, se non in quei brevi scorci, l’atto creativo e vivente del ricordo tale da diventare perfino fermento di nuova vita in quell’incontro dell’assenza di cui parla Massimo Recalcati, in un suo saggio così intitolato, sulla elaborazione del lutto come “lavoro”. Lei mi parla ancora con il suo carico di emozioni che naturalmente porta con sé conferma le qualità del regista, ma non ne estende le intensità, non ne esplora di nuove nonostante le potenzialità del soggetto. Ancora una volta la quotidianità diventa piccola epica familiare e il ricordo amplifica il benessere o il malessere, tutto però resta su un piano strettamente narrativo, estraneo alla natura formativa della memoria. Il film indugia più su quello che sta attorno alla memoria, piuttosto che scoprirne il formarsi. Lei mi parla ancora fa riferimento al presente, dimenticando di raccontare il ricordo e viene in mente un bel titolo letterario Ricordati di ricordare, che fa una bella rima con la frase che segna tutto il film, le parole di Cesare Pavese tratte da Dialoghi con Leucò, oggi quanto mai necessarie: L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia.