TFF37- Abou Leila, di Amin Sidi-Boumédiène, l’infinito labirinto che sogna se stesso

Scopriamo con piacere che torna ad esistere, in Africa, un cinema evocativo e trasversale ad ogni genere, sebbene Abou Leila sia un’opera fortemente caratterizzata dalla storia recente dell’Algeria. Il film di Amin Sidi-Boumédiène, francese, ma di origine algerina, riflette l’instabilità sociale della guerra civile degli anni ‘90 e le vicende dei suoi protagonisti sono le conseguenze delle diverse fratture sociali che avevano reso l’Algeria un luogo non raccomandabile, pieno di insidie e odi interreligiosi. È in questo clima di fragile autorevolezza politica in cui maturava quella violenta e accentuata radicalità religiosa e in cui si susseguivano gli stermini di interi villaggi, che Amin Sidi-Boumédiène ambienta il suo film particolarmente ambizioso, tortuoso, quasi inafferrabile nelle sue forme concentriche che si caratterizzano anche nella voluta incompiutezza della sua trama. Siamo, come si diceva, nell’Algeria degli anni 90. Il film si apre con un attentato in cui viene ucciso un uomo e nel quale rimane coinvolta una pattuglia della Polizia locale. Due personaggi, Lotfi ed S. dei quali il primo è un poliziotto, seguono le tracce di un pericoloso terrorista che si chiama Abou Leila. Il loro viaggio sarà difficile e accidentato e soprattutto per uno dei due che si scoprirà essere stato indiretta vittima dell’omicidio con il quale si era aperto il film.

 

 

Amin Boumédiène frantuma fin da subito le comuni coordinate spazio-temporali, affidando la narrazione ad una struttura labirintica dentro la quale fa muovere i suoi personaggi. Queste caratteristiche si accentuano man mano che il film procede, facendo emergere il lavoro complesso e articolato che un’operazione come Abou Leila ha richiesto. Una complessità che si fa evidente a cominciare dal lavoro di scrittura in cui si possa escogitare il congegno narrativo più adatto per dare efficacia a quelle forme espressive sottratte ad ogni linearità che meglio potessero riflettere la voluta discontinuità della trama. In questa direzione la scelta è stata quella di mescolare i piani di realtà, mescolare la realtà con l’immaginazione e l’immaginazione con una specie di sonnambolica realtà che possa restituire solo una parte del vero. Sidi-Boumédiène fa di tutto per impedire ogni coerenza narrativa e soprattutto per impedire che il suo film si possa dipanare in modo piano e, facilmente “narrabile”. I suoi personaggi vivono in una specie di ininterrotta trance ed è per questa ragione che il film dell’autore algerino ci riconduce ad una forma di visione originale che si esprime sul piano concettuale, piuttosto che su quello puramente narrativo, pur essendo i fatti e gli eventi materia fondante nello sviluppo della storia. Sidi-Boumédiène porta i suoi spettatori su un livello di pura fascinazione e in questa direzione il regista algerino muove molto bene le sue pedine dirigendo un film, cupo e abbagliante allo stesso tempo.

 

 

Abou Leila, con i suoi piani temporali intersecati, nei quali S., il protagonista, resta vittima di un costante vaneggiamento che appartiene al sogno, ma i fatti che accadono in quei momenti appaiono come avvenuti nello stato di veglia. Si tratta di delitti terribili, di fughe in avanti e da ogni contingenza del presente, Abou Leila si trasforma in un film sulla ricerca di una coscienza profonda, anzi, meglio sullo scandaglio di quel luogo insondabile della coscienza in cui il sogno e la realtà smettono di diventare idealizzazioni di una percezione conosciuta, per trasformarsi nella conseguenza di una specie di estasi negativa e in cui tutto è possibile e soprattutto appare possibile che la vita si estenda anche in questa specie di estasi. È possibile dunque la sovrapposizione e la scomposizione dei piani temporali e dell’alternanza tra sonno e veglia, tra realtà e immaginazione, tra prima e dopo, tra ora e passato e futuro. In altre parole il film smette di essere un inseguimento, smette di essere la ricerca di un assassino, smette di di diventare una specie di western africano o un road movie poliziesco, per sedimentare la sua vera natura di cinema che in un infinito labirinto sembra sognare se stesso attraverso quell’esperienza visivo-onirico-visionaria che riconduce il cinema ad una delle sue originarie nature, quella di un complesso dispositivo in grado di ribaltare i piani di realtà, scomporre le coordinate spaziali e temporali per aprire scenari di inattesa profondità. È questa l’esperienza che Amin Sidi-Boumédiène vuole che i suoi spettatori abbiano e lavora alacremente in questa direzione, aiutato, indubbiamente, dagli scenari magnifici del deserto che sembra riflettere gli spazi e le stesse ansie di Antonioni di Professione reporter e, al contempo, accompagnare lo stesso smarrimento dei suoi protagonisti con le sue luci trasversali, la sua maestosa imponenza, i suoi codici interpretativi e soprattutto l’assenza di qualsiasi riferimento spaziale che ne determini le precise coordinate. Il cinema di Amin Sidi-Boumédiène, se continuerà a svilupparsi in questa direzione, potrà misurarsi con quello che ha già indagato sulla non linearità temporale a partire dall’opera di David Lynch, ma qui, il regista franco-algerino ha dalla sua parte un patrimonio non indifferente di immaginario che appartiene alla sua cultura e a quella tradizione che si nutre di nomadismo e contaminazione culturale, tutti elementi che caratterizzano fortemente questo suo film. Se queste suggestioni troveranno una giusta direzione e una finalizzata elaborazione, Sidi-Boumédiène saprà spingerci in quel dedalo inestricabile fatto di tempi e di spazi sovrapposti che solo il sogno visionario del cinema sa offrire.