TFF40 – Frágil di Pedro Henrique e il desiderio puro della felicità

Il 29 novembre, giorno della proiezione ufficiale al Cinema Massimo, il regista Pedro Henrique e il produttore, come già avevano fatto lo scorso maggio all’IndieLisboa, si sono presentati in sala non per presentare il loro lavoro, ma per lanciarsi in una (stucchevole) invettiva contro i festival di cinema e il concetto di film in competizione, al termine della quale hanno detto di non voler proiettare Frágil. Successivamente hanno ritirato dal TFF il film che non è più stato proiettato.  A Festival chiuso, abbiamo deciso di pubblicare la recensione come risposta  all’assoluta mancanza di rispetto nei confronti del Festival di Torino e degli spettatori presenti in sala.

 

 

Frágil (Fragile) di Pedro Henrique, nella sezione «Nuovimondi» del 40° Torino Film Festival, è un attraversamento picaresco e psichedelico del tempo senza limiti e senza forma dei ventenni alla costante ricerca di sostanze e situazioni che diano loro sensazioni forti in grado allontanare la noia, il senso di vuoto, l’attimo in cui si è soli con se stessi, ovvero la vita stessa nella sua essenza più cruda. Una dimensione connaturata alla giovinezza, che è allo stesso tempo la stagione del massimo desiderio e della massima incertezza. Già duecento anni fa, più o meno mentre nasceva il genere musicale del fado, espressione dell’inesprimibile sentimento della saudade, ci ha raccontato una volta per tutte quella dimensione il «giovane favoloso» Leopardi mentre cercava di sopravviverle al riparo da droghe e discoteche in un sonnacchioso borghetto marchigiano, definendo la «noia» come «il più sublime dei sentimenti umani», perché animata dal «non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così dalla terra intera, considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo ed il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto».

 

 

Così, come i tentativi di Giacomo di scappare da Recanati, anche quelli di Miguel, protagonista di Frágil, di trovare droghe e andare in discoteca a Lisbona sono in realtà manovre per aggirare la noia, che si rivela progressivamente niente «altro che il desiderio puro della felicità», ineffabile, insopprimibile e talvolta schiacciante. Dichiara Pedro Henrique, che di Frágil ha curato la sceneggiatura, la regia, il montaggio e in parte la fotografia (insieme a Manuel Pinho Braga), che il film «nasce sia dalla realtà sia dal cinema (perché, come ben sappiamo, tra queste due dimensioni non c’è separazione). Se il cinema classico era associato al sogno, nel capitalismo psicotropo e punk del XXI secolo il cinema non può che manifestarsi come viaggio. E questo viaggio esprime ancora la possibilità di un’evasione anarchica dal mondo delle istituzioni e degli obblighi, siano essi il lavoro, la famiglia o le grandi aziende (o gli stessi club!) che regolano la vita notturna». Così, mentre la storia di Miguel che tenta in tutti i modi di andare in discoteca viene raccontata con un montaggio schizoide e un’estetica fotografica che strizza l’occhio ai favolosi anni Ottanta dei primi videoclip musicali, tra le altre cose ritagliando l’immagine nel formato vintage in 4:3, la controstoria dei suoi amici Belard e Redgi, una vera e propria messa in scena per dissuadere Miguel a non andare in discoteca e a stare con loro, viene raccontata con un montaggio più tradizionale, un’estetica fotografica che strizza l’occhio ai noir della Hollywood classica, riportando l’immagine al formato cinematografico in 16:9.

 

 

Il film, a tratti divertente, a tratti delicato, a tratti pasticciato, ci lascia con una domanda: fino a dove e quanto a lungo questi giovani «che allungano la notte fino alla luce del giorno» possono spingere la continua «ricerca di nuove emozioni, nuove avventure che permettano loro di rimandare il ritorno al mondo “normale”»? Una domanda, conclude Henrique, cui ancora oggi «solo la forza allucinatoria del cinema può rendere giustizia», ma senza eliderla con risposte moralistiche o troppo perentorie.