Al pari di un George Lucas che sicuramente lo ha ispirato per la grandezza epica delle visioni e l’interesse per tematiche fantascientifiche, la figura di James Cameron è capace da sola di evocare il peso (o meglio la leggerezza) di un cinema come pura materia da plasmare con un gesto di volontà, forte di una caratura autoriale capace di unire i grandi numeri alla totale mancanza di compromessi. Cameron, non a caso, è un uomo e un cineasta che in sei decenni ha inventato nuovi equipaggiamenti, ha reso l’effetto speciale pratica espressiva completa di una visione artistica e si è fatto carico di lavorazioni titaniche per portare sullo schermo le epopee di piccoli umani alle prese con un destino più grande di loro. Un autore che, pur nella consapevolezza che l’unico limite è dato da quanto non è stato ancora inventato, resta comunque un solido lavoratore, capace di distinguere il molto piccolo in un contesto più grande, e che perciò ha iniziato dal disegno a matita realizzato di suo pugno, per arrivare infine alle cineprese di prossima generazione. La mostra L’Arte di James Cameron al Museo Nazionale del Cinema di Torino, serve proprio a descrivere questi intervalli, raccontando una “autobiografia attraverso l’arte” che proviene direttamente dagli archivi privati del regista: schizzi, disegni, fra carta e immagini digitali, per un totale di circa 300 oggetti divisi in cinque aree tematiche: Sognare ad occhi aperti, La Macchina umana, Esplorare l’ignoto, Mondi indomiti, Creature. Di tutto questo ha parlato l’autore, atteso inizialmente a Torino in presenza, salvo poi essere trattenuto in Nuova Zelanda sul set del terzo Avatar previsto per fine anno, nella masterclass che si è svolta in videoconferenza lo scorso 11 giugno, moderata dal direttore del Museo Carlo Chatrian. Una discussione che è partita dalle origini, dalla passione per i fumetti Marvel e le illustrazioni fantasy di Frank Frazetta, fino all’attitudine evidente fin dalla più giovane età a dare spazio alle proprie visioni con un foglio e una matita: “Il disegno è stata una terapia, creavo storie che mi permettessero di sfogarmi e immaginare altri pianeti”. Un compito che, fin dall’inizio ha preso molto sul serio, dimostrando subito quella serietà e precisione che oggi sono un suo marchio di fabbrica: “Più costruisci un mondo, più devi rimanere fedele ai personaggi e creare con essi un’intimità emotiva, è il compito di un artista”.
L’excursus sulla carriera dell’autore, proseguito in parallelo con la spiegazione delle scelte che hanno motivato la mostra, è partito da Xenogenesis, che tra il 1975 e il 1978 doveva essere il primo lungometraggio del futuro autore, ma infine è rimasto incompleto nella forma del solo cortometraggio. Nonostante questo, è diventato poi la matrice da cui Cameron ha più volte attinto per gli spunti dei suoi lavori più noti: “Stabilita la voglia di creare dei mondi, ho iniziato a fare delle immersioni per sviluppare il mondo che volevo, il mare ha fornito molti spunti per la creazione del progetto, i cui esiti si vedono già in Xenogenesis, con queste creature medusiformi”. Di fatto è stato “il progetto di tutta la vita”.
Due figure in particolare hanno segnato il percorso del cineasta, Roger Corman e John Carpenter. “Mentre lavoravo a I magnifici sette nello spazio, prodotto da Corman, ho conosciuto John Carpenter, che già ammiravo e che mi ha coinvolto in 1997: Fuga da New York [dove ha disegnato i fondali per il matte painting, NdA]. Tutto è nato con una stretta di mano e così ho lavorato per Corman e Carpenter contemporaneamente, era come un matrimonio fra due culture del low budget. Erano set dove circolavano tante idee e tanta energia. Carpenter è stato un punto di riferimento, era focalizzato, veloce e il compito di quelli come me era di innestare il nostro talento nel suo mondo”.
Una lezione che poi è tornata utile e i cui effetti si sono visti anche nel celebre esordio di Terminator, a partire dal primo concept art: “Si vede l’influenza di Carpenter nella presenza del coltello. Tutto è partito da un sogno che ho fatto a Roma mentre ero senza soldi [durante la lavorazione di Piraña paura dove fu licenziato dal produttore Ovidio Assonitis, NdA]: c’era questo scheletro metallico cromato che usciva dalle fiamme. È stata quasi una visione, d’altra parte devo essere distratto per disegnare bene, non essere totalmente consapevole”
È storia ben nota che il celebre disegno di Rose in Titanic non sia farina del sacco di Jack/Leonardo Di Caprio, ma dello stesso Cameron. “Abbiamo potuto lavorare con Kate [Winslet] in una serie di sessioni in cui lei è stata molto collaborativa. L’unico problema è stato che io disegno con la sinistra e Leonardo con la destra, quindi nel film sono finiti soprattutto i movimenti più ampi in cui descrivo le linee principali, cercando di nascondere il trucco”. Un esempio perfetto di come la visione trascolora dal disegno al cinema, in un ideale parallelo con il percorso artistico già evidenziato, rinnovando l’idea dell’autore che plasma la sua creazione cercando la leggerezza dell’atto artistico, pur nella complessità del risultato finale.
Si arriva così a Avatar e alla prima immagine di Neytiri, diventata il simbolo stesso della mostra, anche sui manifesti. “Tutto è partito da una riflessione su cosa è riconoscibile e cosa è diverso. Cercavo delle qualità ferali e coinvolgenti, ma pur sempre mantenendo una natura umana. La scelta di Zoe Saldanha ha aiutato, perché anche lei ha una qualità felina nei movimenti e la giusta grazia: l’avevo vista in The New World di Terrence Malick e aveva anche un passato di ballerina, che si è rivelato pure un aspetto fondamentale. Abbiamo infatti concepito le riprese del film come una danza, una coreografia, sviluppando un repertorio di movimenti che poi ha costituito l’essenza dei Na’vi insieme alla lingua che abbiamo creato. Adoro la libertà del processo che abbiamo utilizzato con la performance capture, perché mi ha permesso di focalizzarmi sul lavoro con l’attore”. Infine, una riflessione sul fenomeno dei cinecomic: “Mi piacciono i film Marvel e DC, sono cresciuto con i loro supereroi (in particolare ho sempre amato Spider-Man), ma credo che i loro film fatichino a umanizzare i personaggi, restando in superficie. E poi c’è troppa ironia: Guillermo del Toro mi prende in giro perché io ne uso poca, ma la verità è che preferisco un tipo di emozione che faccia commuovere il pubblico e cerco di essere onesto in questo”. Dopotutto, la lezione che l’autore lascia al suo pubblico è un’autentica dichiarazione d’intenti: “Ci sono tante domande nella nostra testa che trasformiamo in arte e non in parole. Il mio consiglio quindi è di iniziare con il disegno, per esplorare la propria creatività. Ma non cercate l’approvazione, bisogna farlo per sé stessi”.
Torino, Museo Nazionale del Cinema: “The Art of James Cameron”