Massimo Causo: nella sezione Onde del TFF troverete il Cinema in tutti i suoi stati!

Massimo Causo, curatore della sezione Onde al TFF n.35, è un amico con il quale abbiamo condiviso molte esperienze a partire dalla rivista Duel. Siamo perciò di parte nell’affermare che la sezione è per noi un appuntamento che attendiamo ogni anno con curiosità e che non ci ha mai deluso. Causo, con la collaborazione di Roberto Manassero, fa anche un’operazione di scouting ammirevole in giro per il mondo per trovare un bel gruppo di esordienti da lanciare. E infatti quest’anno si guarda «allo scenario diradato e alla curvatura intimamente crepuscolare che la realtà contemporanea offre alla ricerca espressiva portata avanti dai filmmaker più giovani e innovatori». Alla vigilia del festival abbiamo sentito da Massimo Causo l’urgenza di raccontarci «la percezione fondativa dello sguardo, la definizione dell’immagine e la funzione identitaria del filmare…». In apertura un’immagine tratta da Let The Summer Never Come Again di Alexandre Koberidze.

En attendant les barbares di Eugène Green

 

Pur nella differenza, esiste un’idea di cinema forte che si viene a comporre nella sezione grazie anche alla presenza di tanti esordienti?

L’idea forte è il Cinema, in tutti i suoi stati! Il fatto stesso che ci sia ancora la possibilità di stupirsi di fronte a un’opera che emerge, per semplice forza di sguardo e energia di immagini, dall’immersione totale nelle visioni in cui viviamo. L’avventura di cercare e trovare delle opere che scavalchino le aspettative e insistano sull’identità implicita del Cinema, sulla sua ricerca connaturata. Se poi vogliamo entrare nello specifico, direi che l’idea forte che potrebbe tenere insieme i film di Onde 2017 è la capacità del Cinema, intesa come forma complessa di rappresentazione della realtà e di narrazione del mondo, di inglobare in una tensione compositiva armonica le varie istanze delle immagini filmate che ci circondano: digitale, pellicola, web, found footage, archivio in decomposizione, documentario, narrazione, generi, fotografia, affabulazione e realtà, musica, suoni, pixel e scorie di emulsione… Senza tuttavia mai esaurirsi nella prassi della ricerca, ma elaborando un dialogo con le possibilità alternative delle narrazioni. Ed è proprio in questo che i giovani autori, gli esordienti, si dimostrano i più prolifici e attivi.

Colo di Teresa Villaverde

 

Eugène Green e Teresa Villaverde sono autori consolidati e dalla forte personalità, cosa dobbiamo attenderci dai loro film e come “dialogano” con gli altri titoli?

Sia En attendant les barbares di Eugène Green che Colo di Teresa Villaverde dialogano, ognuno a suo modo, con la questione di un Presente che serra l’animo dei viventi e che avvolge l’Uomo in una coltre oscura. Sono due film che sanno esprimere una visione “politica” della realtà contemporanea configurandola in parabole che parlano il linguaggio della fiaba, nel caso di Green, e del dramma sociale, nel caso della Villaverde. Ma in entrambi i casi è proprio l’universalità poetica del filmare a definire una via d’uscita, la possibilità di una narrazione che restituisca dignità ai personaggi, dunque all’Uomo. In questo senso, la loro lezione può riecheggiare anche nelle opere di altri autori di Onde, che nel presente sono ognuna a suo modo calate.

 

Ecco, il presente di crisi, la Storia, le storie… Cosa attraversa questi film?

È innegabile, e inevitabile, che anche film che stanno in territori più smaccatamente di ricerca come quelli cui guardiamo nel lavoro di selezione per Onde facciano fatalmente i conti con una realtà che si allunga ombrosa e problematica sul tempo dei viventi. Se devo trovare qualcosa che attraversa un po’ tutti i film di Onde, forse è proprio la paura, il senso di incertezza, lo sguardo occultamente interlocutorio rispetto alla realtà, il tema di un confronto assiduo e problematico con i tempi in cui viviamo. È il caso del Cogitore di Braguino, che in immersione nella placida paura dell’esistere ci lavora, ma c’è anche Axel Ohman di A Window on The World, che nel gelido inverno di una New York da Ground Zero piazza il breve incontro dei suoi due protagonisti; Feyrouz Serhal, che sospende il suo meraviglioso cortometraggio Tshweesh sulle paure rimosse di una Beirut postbelica, tra terra e cielo; il cileno Benjamin Brunet, che in La  madre el Hijo y la Habuela seppellisce la tristezza sotto la coltre di cenere di un vulcano; o ancora la Parigi sotto assedio della paura terroristica raccontata da Neil Beloufa in Occidendal, che presentiamo in ArtRum…

 

Il percorso pluriennale di Onde dove sta portando lo spettatore? E cosa ti incuriosisce maggiormente come selezionatore?

Questo è l’undicesimo anno (considerando i due in cui la sezione che curo si chiamava “La Zona”) che costruisco un percorso a ostacoli per il pubblico del Torino Film Festival, cercando di spiazzare le attese. Con Roberto Manassero, che mi è accanto in questo lavoro, cerchiamo di calcare (e far calcare) territori di ricerca che non aderiscano banalmente ad aspettative precostituite. Non ci interessa la sperimentazione in sé conclusa, ma la forzatura dei linguaggi e i tentativi delle estetiche, così come le tensioni poetiche.

No Panic Baby di Leo Gabin

 

Con No Panic Baby riproponi il collettivo belga Leo Gabin, cosa ti convince del loro lavoro?

Loro sono tre giovani filmmaker nei quali ritroviamo esattamente quello che vogliamo per i film di Onde: la capacità di instillare nella pura e semplice ricerca espressiva una tensione emotiva altissima, lavorando semplicemente sul rapporto tra gesto filmico e concetto da esprimere. Quest’anno tornano in Onde con No Panic Baby, in cui abbandonano in gran parte la prassi del found footage dei loro lavori precedenti e guardano alla realtà americana con una violenza percettiva strabiliante. In mezz’ora costruiscono un concentrato di angoscia che sta esattamente nel mezzo tra la violenza azzerata delle breaking news, l’astrazione surrealista di David Lynch e l’implosione immaginifica pop di Harmony Korine.

 

Quale sarà la sorpresa della sezione?

Potrebbe essere Let The Summer Never Come Again  di Alexandre Koberidze, trentatreenne georgiano con studi berlinesi: tre ore e venti di melodramma in bilico su una storia d’amore a Tblisi tra un ballerino e un soldato, interamente filmato con un telefono cellulare di vecchia generazione… Una scomposizione pittorica che svapora impressionisticamente nei pixel della bassa definizione, una sfida tra lo sguardo e i sentimenti, venata da ironia e poesia di pura marca Iosselliani.

Essi bruciano ancora di Lavorato e D’Agostino

 

E sull’unico film italiano Essi bruciano ancora di di Lavorato e D’Agostino cosa si può dire?

Mi piace definirlo un film ardito e ardimentoso… È una sorta di ordigno situazionista che si accanisce con grande forza poetica su una revisione – o se preferite “re-visione”… – dell’unificazione d’Italia per mano dei Savoia e s’inarca in un discorso sui sud del mondo, sulle guerre di conquista e sulle lotte di liberazione, sulle emigrazioni di ritorno e sulle indipendenze negate. Tiene insieme Rambo e Debord, Brecht e Straub. È un film esteticamente molto coraggioso e appassionante.

 

Con Onde-ArtRum prosegue la collaborazione con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo che approfondisce il rapporto cinema-arte. Che accade su questo fronte?

È una collaborazione alla quale teniamo molto, perché permette a Onde di spingersi con autorevolezza nei territori dell’arte, lavorando sullo spazio di transito tra artisti e immagine filmata. Con la Fondazione condividiamo la voglia di mostrare le opere di artisti di fama internazionale che lavorano spingendosi consapevolmente nello spazio del Cinema. L’esempio di Occidental, il lungometraggio di Neil Beloufa  che presentiamo quest’anno, grande successo nei festival di tutto il mondo, è emblematico proprio nel suo tessere una sorta di arazzo coi fili delle paure e delle confusioni identitarie e culturali che ci appartengono. E poi ci sono due cortometraggi, Cosmic Generator dell’argentina Mika Rottenberg e Lick in The Past dell’artista franco-belga Leure Prouvost, entrambi lavori che colgono sguardi di meticciato culturale, che trasudano un immaginario trasversale sospeso sulla performance consumistica del nostro modo d’essere.