Allegoria di un Paese in putrefazione: in Rojo di Benjamin Naishtat l’Argentina corrotta alla vigilia del colpo di Stato

C’è una regola d’oro che circola tra chi si occupa di drammaturgia, che sia in ambito letterario, teatrale o cinematografico, conosciuta come la regola della “pistola di Cechov” dal nome del grande scrittore russo che la coniò e che recita sostanzialmente così: se nel primo atto di una storia compare una pistola, bisogna che prima o poi spari. Questa regola Benjamin Naishtat l’ha ben presente e dimostra di averla messa in pratica magistralmente in Rojo, suo terzo lungometraggio ambientato in una tranquilla e imprecisata provincia argentina nel 1975, l’anno precedente a quello del golpe col quale si instaurò il regime dittatoriale inaugurato da Videla. Quello fu l’inizio di uno dei periodi più bui per l’Argentina, quando le persone sparivano da un giorno all’altro senza lasciare traccia nell’indifferenza più totale della società, dei propri vicini di casa, in particolare di quella borghesia che si diceva per bene quando invece era vile e corrotta. Ed è proprio questo il tema al centro del film di Naishtat, la progressiva e degradante crisi dei valori attraverso la quale si leggono i prodromi della disfatta politica e morale di un intero Paese. Che si parli di una macchinazione è evidente già dal prologo, tanto curioso quanto inquietante, in cui nel silenzio più completo di una strada di paese si notano alcuni personaggi uscire ripetutamente da una villetta portando con sé oggetti di ogni sorta. Un ultimo personaggio si avvicina alla porta, bussa e chiede se c’è qualcuno; nessuna risposta. La casa è abbandonata ma il perché sarà svelato solo in un secondo momento.

 

 

Il protagonista è Claudio (l’attore argentino Dario Grandinetti, visto in Storie pazzesche), uno stimato avvocato che gode di una posizione e del rispetto dei propri concittadini, che ha una bella moglie, una bella figlia, una bella casa: è lui l’emblema del perbenismo imperante, che non si risparmia discorsi feroci e umilianti verso l’uomo sconosciuto che all’inizio del film, in un ristorante pieno di gente, pretende con forza di sedersi al posto suo per consumare un pasto, ciò che anche Claudio dovrebbe fare se solo la moglie non fosse in ritardo. Dopo un violento alterco, lo sconosciuto viene cacciato dal locale grazie all’intervento dei commensali, la cena può procedere e l’avvocato torna a sedersi come se nulla fosse successo. È una scena madre questa, dal carattere allegorico come poi è l’intero film: quell’uomo, a prima vista uno squilibrato, che attende Claudio all’uscita del ristorante per aggredirlo ma che poi si spara un colpo di rivoltella alla testa (eccola, la pistola di Cechov…), è invece l’opposto, l’anticonformismo disperato che tenta di ribellarsi al perbenismo e che poi, ancora rantolante e in fin di vita Claudio trascina nel deserto consegnandolo così alla morte invece di soccorrerlo; è pratica comune e conveniente occultare cadaveri.

 

 

Ma questi sono solo gli antefatti, dal momento che il titolo campeggia a tutto schermo solo dopo venti abbondanti minuti dall’inizio del film e un salto temporale di tre mesi in avanti mostra come la vita prosegua nella più completa normalità: si frequentano facoltosi amici, si va al rodeo, a scuola si prepara uno spettacolo di danza (che però mette in scena un sacrificio), si frequenta il circolo del tennis, ma un disagio palpabile e sempre più forte si fa strada. Il titolo, Rojo, rimanda al colore rosso del sangue di cui però nel film non c’è traccia concreta se non in un preciso momento tremendamente inquietante, dove tornerà protagonista la casa abbandonata del prologo; Naishtat preferisce alludere al clima che si andava instaurando in tutta l’Argentina per mezzo di simboli: nella scena centrale dell’eclissi una luce rossa invade tutto lo spazio espandendosi proprio come una macchia di sangue sui personaggi, travolti in realtà da un’eclissi dei valori e della morale. Grottesca poi, ma altrettanto centrale, è la figura del detective cileno Sinclair (l’ottimo Alfredo Castro), che lavora per la televisione ma ha un passato in polizia, assoldato dall’amico di Claudio per indagare sulla scomparsa di uno sconosciuto arrivato in città tre mesi prima e poi sparito nel nulla (ricorda niente?). Sinclair sembra un profeta, è quasi un’entità astratta, una voce della coscienza che parla in toni biblici, ma è anche colui che sa, è lo Stato, è il Potere che assolve. E quando, durante uno spettacolo di magia, un prestigiatore fa sparire una donna insistendo sul termine desaparecer, il riferimento alla realtà dei fatti è chiaro. Il colpo di Stato è alle porte mentre serpeggia un profondo disagio da camuffare con un posticcio nel tentativo di coprire, magari, insieme alla calvizie, anche la voce della propria coscienza.

 

 

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