Su RaiPlay La terra dell’abbastanza, la periferia invisibile dei Fratelli D’Innocenzo

L’attacco è tenero, due pischelli fermi in auto nel centro di un parcheggio vuoto, una pagnotta con la cicoriella in mano e trenta euro in tasca guadagnati consegnando pizze a domicilio. Mirko e Manolo hanno gli occhi liquidi dell’innocenza di un’amicizia che sembra ancora quella di Pasquale e Giuseppe sul cavallo bianco di Sciuscià, ma la Roma che abitano è quella de La terra dell’abbastanza (Panorama), opera prima in quota realismo di quartiere dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo. Un’altra Roma e un’altra amicizia, in bilico su quell’inferno quotidiano della violenza che i due registi, introducendo il film, evocano citando non a caso Le città invisibili di Calvino: Mirko e Manolo sono l’espressione di carne e di sangue del labirintico inferno cittadino, protagonisti di un piccolo, banalissimo sogno sognato da tanti come loro nel deserto di un parcheggio di periferia, percorrendo nella bruma le desolate strade notturne, investendo con la loro auto, senza quasi accorgersene, un poveraccio e scappando via spaventati a morte. I fratelli D’Innocenzo aprono il loro film nel lasso di un’innocenza che diventa incoscienza, tracciando un percorso che rimarrà poi la chiave rappresentativa di un’opera che resterà in bilico tra il setting realistico e la deriva quasi visionaria che promana dallo smarrimento progressivo dei suoi due protagonisti.

 

I due ragazzi, che sono cresciuti insieme come fratelli, precipitano infatti prima in un incubo di paura (il corpo sull’asfalto, l’angoscia, la fuga), poi in un sogno di successo, che spezzerà le loro vite: il padre di Manolo, un poveraccio che vive in un garage (Max Tortora in versione borgatara), scopre infatti che i due hanno ammazzato il morto giusto, perché si trattava di un “infame” che si era dato alla macchia dopo aver parlato troppo con la polizia. La cosa è il viatico perfetto per “svoltare”, entrando nelle grazie della famiglia di Angelo (Luca Zingaretti), il boss del quartiere, che quel morto steso sull’asfalto ha molto gradito… E quindi il film diventa il classico coming of age in nero, storia di ragazzi che scivolano nell’inferno della violenza cittadina (regolamenti di conti, prostitute da accudire, ragazzine da fornire ai pedofili…) mentre l’inverno del loro scontento si abbatte su di loro e raggela il barlume di coscienza che ancora nutrono sotto la fasulla anestesia che sembra averli addormentati. Il film sta proprio in questo stato d’animo, in questa disfunzione coscienziale cui i fratelli D’Innocenzo consegnano i due protagonisti, spingendoli in un percorso psicologico estremo e silenzioso, nemmeno troppo esplicito per fortuna, anzi forse sin troppo chiuso. Sarebbe bello, del resto, se avessero avuto la forza di scontornare davvero lo scenario suburbano in cui si muovono, facendone lo spazio istruttorio di una città invisibile in cui mettere a bagno la coscienza scarnificata di questi due ragazzi. Nei quali trovano comunque la purezza denudata giusta, il rigore infantile che ne raffredda le coscienze, disinnescandoli come figure realistiche e consegnandoli ad atti di coscienza quasi astratti, simbolici. C’è forza, sentimento e astrazione in questo esordio così rigoroso nel suo aderire all’umanesimo di periferia che questa stagione del giovane cinema italiano (De Paolis, Carpignano) sta vivendo, ma c’è anche un persistente malinteso da realismo armato, di cui si sente la schematicità. Luca Zingaretti, a dire il vero, dà una profondità al boss che lascia il segno, ma il lavoro di equilibratura tra atarassia e sofferenza i due registi lo hanno fatto soprattutto sui due giovani protagonisti: Andrea Carpenzano, che contiene le emozioni di Manolo, e Matteo Olivetti, che lascia esplodere le reazioni di Mirko.