Bismillah, “nel nome di Allah”. Sono le prime parole di Fatima, che fa le sue abluzioni prima di indossare l’hijab e iniziare a pregare. Diciassette anni, i tratti regali di origine nordafricana, Fatima è la petite dérniere, la sorella minore di tre di una famiglia di origine algerina a Parigi. Vive in un appartamento in periferia, padre presente ma totalmente silenzioso, madre accudente verso tutti, e in modo particolare verso quella figlia silenziosa, poco femminile. A scuola è l’unica ragazza nel suo gruppo di amici, che si vantano chiassosamente delle loro imprese erotiche raggiunte tramite un “sito di MILF”. Quando, dopo un’interrogazione in classe su Oscar Wilde, gli amici di Fatima bullizzano un loro compagno di classe perché gay, in risposta lui gli fa notare che la loro amica è lesbica. In quel contesto la reazione di Fatima è violenta, incomprensibile al suo migliore amico tanto quanto è ancora fuori fuoco, indecifrabile a lei stessa, che fino a quel momento prova solo uno scarso interesse per un ragazzo che la vorrebbe sposa tradizionale. Fatima si chiarirà le idee, un passo dopo l’altro, prima con l’aiuto di un’app per incontri, poi con il primo vero innamoramento per la coreana Ji-Na (Park Ji-Min), come lei apolide dei sentimenti, e grazie ad altre comunità accoglienti, distanti dal suo contesto d’origine: la parata del Pride, le serate tematiche a La Mutinerie, la festa privata che le fa conoscere Cassandra, trascinante guida senior (Mouna Soualem) nell’eros femminile.
Padre tunisino, mare algerina, l’attrice Hafsia Herzi, lanciata da Abdellatif Kechiche nel 2007 con Cous cous, arriva al Concorso di Cannes78 con la sua terza regia, dopo Tu merites un amour, alla Semaine de la Critique nel 2019, e Bonne mère, in Un certain regard nel 2021. La petite dernière è liberamente tratto dal romanzo autobiografico omonimo di Fatima Haas, uscito in Francia nel 2020 e pubblicato da Fandango libri come La più piccola nel 2021. Seguendo la sua protagonista in un arco di tempo che va da una primavera a quella successiva, Herzi lavora su accostamenti, suggestioni, si appoggia all’espressività spesso muta dell’esordiente Nadia Melliti, decisa ad andare a fondo nel capire il suo desiderio, a pronunciarne le parole, come introiettando un manuale di istruzioni che il suo primo appuntamento al buio le elenca con completezza. La regista, che sa coreografare l’eros, anche in sequenze lunghe, senza tagli né effetti, non ne mostra mai il corpo nudo. Per rispettarne il pudore, e restituire il senso del suo nascondimento coatto, sotto un cappellino da baseball come alternativa possibile al velo. Il tabù dell’omosessualità per Islam è tutto in uno stacco di montaggio che arriva a tre quarti del film: a una sequenza su un corpo seminudo ed eccitato di giovane donna, segue, con stacco netto, una scena ambientata nella moschea di Parigi. Qui Fatima va a colloquio con l’imam, per avere una risposta al suo dilemma, tutto interiorizzato, di credente e omosessuale (una risposta concorrente arriverà da un testo scoperto sui banchi universitari di filosofia, Discorso sulla schiavitù volontaria di Etienne De la Boétie, cinquecentesco manifesto di liberazione). Eppure il film, e chi scrive lo considera un pregio, non cerca lo scontro tra religione e sessualità, ma si concentra sulla problematica formazione di un’identità che ne raccoglie molte al suo interno: francese figlia di nordafricani, studentessa dotata che frequenta coetanei senza ambizioni, sorella di ragazze che hanno il matrimonio come obiettivo di vita, sportiva che insiste nel correre e nel fumare nonostante l’asma, dragueuse nei locali notturni che si astiene dall’alcol. Prima di tutto questo, figlia amatissima, che trattiene tutte le emozioni fino a un epilogo dirompente, che illumina una performance silenziosa, giocata sulla paura di un tradimento irreparabile. Sottigliezze che fioriscono solo in rare sceneggiature.