L’immaginario simmetrico di La trama fenicia di Wes Anderson

Zsa-zsa Korda è un imprenditore, un finanziere senza scrupoli e apparentemente di successo. Sopravvive con personale aplomb a una serie di attentati – soprattutto aerei – organizzati da chi gli vuole male. Che gli resta nella vita? Perseguire il suo scopo, magari coinvolgendo una dei suoi innumerevoli figli (l’unica che riconosce come erede), una suora abituata alla rinuncia ma pronta alla riprova. Liesl non conosce bene il padre – anzi, sospetta che sia l’assassino della madre – e neanche le tentazioni: l’unico alcol che ha frequentato è il vino da messa, prima di scoprire i piaceri e le angosce di altri liquidi tentatori. Korda ha un piano, un sogno, e per realizzarlo deve convincere – una volta di nuovo – una serie di sodali che gli hanno voltato le spalle. Per fare questo dovrà riconquistare la fiducia della figlia e, forse, mettersi per una volta – una sola – in discussione. Ad accompagnarlo in questa sorta di redenzione affaristica c’è anche un cialtrone che si spaccia per assistente nordico e che forse non è chi sembra di essere. Wes Anderson paga ancora una volta il peso di un marchio, quello della ripetizione, del compiacimento, dello stile fine a sé stesso. Come nei suoi ultimi film, The Phoenician Scheme (in Concorso a Cannes78) vive di un’estetica ben definita, determinata, più che codificata. Come se, all’interno di un codice visivo, non ci fosse spazio per un’inventiva, per un approfondimento. Anderson non si sottrae alla sfida: ripete ossessivamente i propri schemi estetici – simmetrici, costruiti, in fondo magnificamente coerenti – per riproporre le sue ossessioni, i suoi canoni, le sue (iper)lucidate insicurezze.

 


 
Ovviamente il film è riempito di facce e corpi attoriali che – ahimé – rischiano di deviare il centro del discorso. Certo, i credits iniziali e finali del film fanno impallidire il nuovo sistema indipendente hollywoodiano (star dedite a un film destinato a incassi marginali), ma raschiando la superficie si rischia di restare bloccati a un’analisi “a galla”. Perché – scavando scavando – The Phoenician Scheme è invece un’altra variazione sul tema, l’ennesima, sulle relazioni umane. Più piena di vita di quanto sembri e che si voglia ammettere. Una storia di uomini pieni di sé incapaci di portare a termine una propria “missione”; di padri sepolti dall’immanenza del loro ruolo, costretti a fare i conti con figli alieni e distanti; di relazioni guidate dal possesso e dal potere che si rivelano vuote e inutili. Anderson ha semplicemente trovato una forma, la solita certo, per il suo contenuto che – nel bene e nel male – è sempre rimasto uguale. Al suo cinema viene sempre rimproverato il trionfo del décor sulla necessità della storia, senza pensare che il décor, nella sua idea di cinema, possa essere esattamente lo specchio del labirinto di relazioni umane sempre messe alla luce, sempre centrali, sempre necessarie. Al centro del cinema di Wes Anderson non c’è mai – per quanto possa invece sembrare ovvio – un gusto estetizzante, quanto il tentativo di creare un immaginario (simmetrico, riconoscibile, stilizzato) che sappia comprendere e abbracciare quella forma di assenza. Certo, sembra una provocazione dire che il cinema di Wes Anderson – colori pastello e musiche da carillon – sia in realtà un cinema di relazioni perdute che cercano nella precisione dell’immagine quella simmetria che le emozioni non concedono.

 

 
E invece, anche in un esperimento parzialmente monco come The Phoenician Scheme, in cui la profondità di ragionamento è parzialmente soffocata dal gusto esotico del racconto, il ragionamento – lo scopo – resta lo stesso. Verrebbe voglia di provocare: a rendere riconoscibile il cinema di Wes Anderson non è il gusto pastello, la scenografia vintage e pulitissima, la specularità ricercata per ogni inquadratura fino al parossismo. È invece quel tentativo – costruito e forgiato da immagini così nitide – di relazionare quel che si sente a quel che si guarda: l’implacabile geometria del set usata come analgesico per affrontare rapporti disfunzionali. Per questa ragione, pur ammettendo che The Phoenician Scheme – giocando con i romanzi di avventura e di appendice – non riesce ad aggiungere troppo (o quantomeno abbastanza) alla linea ben tracciata della poetica di Wes Anderson, un mezzo passo falso può rinvigorire l’idea di un’autorialità troppo spesso scambiata per vezzo, di una lucidità etico-estetica presa per tappezzeria. Sbagliando, e non di poco.