Cannes78 – Malattia e stupore in Nino di Pauline Loquès

Tre giorni nella vita di Nino, che sta per compiere ventinove anni: un venerdì, pensando di andare a ritirare delle analisi, riceve da una giovane dottoressa, in un sistema sanitario sotto assedio, una comunicazione secca e improvvisa: ha un tumore alla gola, provocato da un’infezione da papillomavirus contratta tempo prima. Con lo stordimento dell’informazione, arrivano anche due avvertenze urgenti: se ha intenzione di avere figli, meglio congelare lo sperma. E trovare una persona, tra amici e parenti, che lo accompagni alle sedute, che inizieranno il lunedì successivo. Come passerà, Nino, quel tempo vuoto, in mezzo? Ci si aspetterebbe di vederlo chiudersi in se stesso, in casa, oppure annullarsi disperatamente in una miriade di distrazioni possibili. Ma per via di un altro “imprevisto” rimanere fuori dal suo appartamento, perché non ne trova più le chiavi – trascorre il weekend peregrinando per una Parigi sospesa, notturna. Visto che è il suo compleanno, si invita a cena da sua madre (Jeanne Balibar), e così il fatto di restare a dormire da lei non suona strano; rivede una sua ex, Camille (Camille Rutherford), prima di scoprire che l’amico Sofian (William Leghbil) gli ha organizzato una festa a sorpresa. Per tutto il weekend, il suo girare non è affatto a vuoto, ma si riempie di un senso inatteso e sorprendente, che rimette in circolo le relazioni con gli altri, che sia uno sconosciuto di un bagno pubblico (Mathieu Amalric) o una sua ex compagna di scuola, Zoe (Salomé Dewaels). La messa a fuoco è sempre fuori da sé, ed è già un farmaco. Come se quella scioccante notifica lo invitasse a rinascere.

 

 
Introverso, efebico, busterkeatoniano: nel ruolo del magnetico protagonista Nino, l’attore canadese Théodore Pellerin guida alla Semaine de la Critique il film omonimo che la debuttante Pauline Loquès ha scritto e diretto con dichiarata intenzione: riscrivere, inventando, il cammino di una persona persa a lei vicina (nei titoli di coda si legge “pour Romain”). Non c’è pathos, la rappresentazione della malattia non ricade nel luogo comune della battaglia, tantomeno eroica. È piuttosto un’illuminazione, un innesco, una rinascita, una formidabile spinta a cogliere ogni occasione, ogni momento, come buono, fruttuoso, luminoso. Lo script di Loquès, punteggiato di un’ironia leggera, crea un’atmosfera sospesa, magica, lavorando sull’indicibile, il pudore, il privato, e ovviamente sulle risposte di chi conosce o meno la diagnosi. Senza accenti né sottolineature su alcuni fili rossi, come il passaggio tra generazioni. Orfano di padre, Nino con Zoe inventa di stare per diventare genitore e lei, grazie a una lettura “a distanza” di un passo da Anaïs Nin – gli farà un gran regalo. La difficoltà riproduttiva, fisiologica dei millennials torna anche nella confessione di Lina, sorella di Sofiane. Ma soprattutto – la gola, la voce – il film insiste su una carenza comunicativa, la mancanza di abitudine a condividere le emozioni. A far finta sempre che vada tutto bene. Tra un incontro e l’altro, parole altrui più e meno sensate, mentre il tempo non è più misurabile con le stesse metriche, Nino, stordito e tenero, sta un passo indietro, anzi di lato, concentrato e sorpreso nel cercare l’alba dentro l’imbrunire.