A volte non è possibile passare oltre certi eventi e andare avanti con le proprie vite. Lo dice Jafar Panahi nel suo film Un Simple Accident, atto di accusa senza veli contro la repubblica islamica, sorretto dall’ironia rarefatta che conosciamo tipica del regista iraniano, ma portatrice di una rabbia che è percepibile in tanti film passati in questo insolito e coraggioso festival. Panahi parte da un dettaglio, un incidente senza importanza. Nel fare ritorno a casa con la famiglia, un uomo investe un cane. È notte, l’illuminazione è scarsa e i cani randagi si muovono numerosi nelle strade periferiche. L’auto si ferma e l’uomo scende, ma non fa nulla per salvare il povero animale. Semplicemente lo allontana dalla strada e risale in auto, impassibile, nonostante le proteste della figlia. Un evento apparentemente insignificante (ma non casuale, per la nostra conoscenza del personaggio) che sarà scintilla iniziale dell’incendio che via via divamperà lungo tutto il film, facendo riaffiorare storie rimaste sopite sotto la cenere e sviluppi talvolta imprevedibili, attraverso le strade cittadine, le campagne circostanti, lo spazio chiuso di un furgone, dove l’uomo viene tenuto bendato e “in attesa di giudizio”.
Si scopre, infatti, che quell’uomo freddo potrebbe essere stato un carceriere, colpevole di aver torturato i prigionieri arrestati in seguito ad una manifestazione di lavoratori. Lo riconosce Vahid quando sente nell’officina in cui lavora il rumore inconfondibile dei suoi passi incerti per una gamba artificiale. Lo sconcerto, la paura, la rabbia, appunto, il dolore di quei giorni riemergono e la macchina della vendetta inizia la sua strada. I fatti si accumulano così come le persone coinvolte, tre uomini e due donne (una di loro vestita da sposa), chiamati a riconoscere quest’uomo come il loro aguzzino, che però, non hanno mai visto in faccia. Viene in mente La morte e la fanciulla di Polanski perché anche in questo caso la memoria afferra sensazioni, odori, suoni che restano lucidi e vivi più di qualsiasi immagine. Nato dalle storie raccolte nel carcere di Evin, dove Panahi è stato a lungo detenuto e girato ancora in clandestinità, Un Simple Accident è il primo film che il regista può accompagnare dal 2010 (quando, per aver manifestato contro il governo di Ahmadinejad gli era stato confiscato il passaporto e gli era stato proibito di fare film) ed è quello più personale e doloroso, che non usa metafore poetiche per raccontare ma va dritto al punto, implacabilmente, volendo mostrare quarant’anni di repressione e violenza in Iran attraverso le parole che descrivono le torture perpetrate ai carcerati. Alla società è sempre rivolto il suo sguardo e allora ecco che le donne compaiono senza velo, perché è quello che accade ora a Tehran dopo il movimento Donna Vita Libertà, a testimoniare la volontà indomita di un regista che affronta la censura senza più cercare di aggirarla, unendo tragedia e farsa, accostando gli opposti nell’estenuante piano sequenza finale, dopo il quale, forse, i cinque protagonisti potranno davvero andare oltre e tornare a vivere le loro vite.