Get Out: fuga dagli stereotipi

Fine settimana con classica presentazione in famiglia, in puro stile Indovina chi viene a cena?. E lo scenario che si para innanzi al povero Chris Washington è una rappresentazione del tipico stereotipo del bianco possidente con servitù nera. Ma c’è uno sfasamento, che si rivelerà progressivamente e che si chiarirà essere dovuto a dinamiche più vicine a un Django Unchained che a uno Spike Lee. Perché la questione razziale – che peraltro allo scadere dell’era Obama e all’inizio di quella Trump abbiamo visto essere più viva che mai – non è soltanto una questione di presunta “supremazia” di una etnia sull’altra. No, è una questione di desiderio di essere l’altro, di invidia della propria parte mancante che si ritrova nell’opposto. In fondo il film di Tarantino, mutatis mutandis, ci diceva proprio questo, mettendo in scena un nemico black (lo schiavo Stephen di Samuel L. Jackson) che surclassava il villain titolare Calvin/Leonardo Di Caprio perché ne diventava l’autentica rappresentazione, quello che ne riverberava il potere pur dalla prospettiva dello schiavo. E in fondo così accade anche in Scappa – Get Out, storia di bianchi che vogliono essere neri e neri che nella loro apparente condizione di schiavitù perpetuano la vita dei “padroni”.

Ma c’è anche un altro aspetto che ci dice dell’abile lavoro sugli stereotipi che il regista e sceneggiatore Jordan Peele ha portato avanti: è in quella prima parte tutta in levare e basata su un senso tattile del disagio, polanskiano quasi (Peele cita Ira Levin come nume tutelare), per come la famiglia white cerca a tutti i costi di sembrare politicamente corretta, dando a Chris ciò che lui si aspetterebbe da un mondo apparentemente tanto lontano. Si creano così latenti momenti di panico, quelli in cui tutto è disposto sotto l’occhio vigile della macchina da presa, eppure sembra scomposto, disallineato, e si attende il momento in cui Logan, l’unico nero del gruppo, ha la sua crisi per aprire il fronte di un racconto dove quello che sembra non è quello che è. Washington, Logan: persino i nomi partecipano del gioco di riconoscibilità nell’immaginario scomposto in cui bianco e nero si confondono, mortalità e immortalità si intrecciano. Peele dal canto suo, osserva: lui è uno che si è fatto le ossa come stand-up comedian, quindi sa perfettamente quali sono i denti che dolgono dove far battere la lingua, e gioca con la percezione comunemente diffusa: il bingo diventa asta, l’amore diventa reclutamento, la festa familiare diventa catalogo con cui scegliere l’acquirente. E, ancor più sottilmente, il sorriso inquietante della serva Georgina è il ghigno ebete dell’anziana ormai poco lucida, e la corsa notturna e minacciosa del giardiniere è la ginnastica senile di chi cerca di mantenersi in forma contro il tempo. Tutto è ribaltato di segno, secondo una dinamica che guarda al cinema degli anni Settanta, ma riesce a declinarsi perfettamente negli umori di quel presente che la questione razziale non solo non l’ha risolta, ma non sembra averne capito i termini. In questo senso, sì, Peele fa ancora una volta satira, ma è proprio questo a rendere Scappa – Get Out un film efficacemente inquietante. Oltre che un horror perfetto per come ha capito che occorre recuperare la capacità del genere di guardare al reale, pur da una prospettiva fantastica, per farsi visione del mondo, a prescindere dal budget ridotto. Lezione Blumhouse, in fondo, e in questo senso il film si fa anche fecondo incontro di talenti.