Black Bag è uno spazio invalicabile, che deve restare nell’ombra. È il luogo in cui giace un fuori campo insolito, l’origine di un meccanismo di sottilissima astuzia narrativa, quindi perfettamente in linea con il cinema di Steven Soderbergh, capace come sempre di giocare con serietà, sperimentare con ironia e mescolare le carte dei generi. Si intitola così il film scritto con David Koepp (già autore di Mission: Impossible, per fare un esempio, ma anche di Presence, ancora diretto da Soderbergh, che uscirà in Italia il 24 luglio prossimo), spy thriller “da camera”, senza gli effetti speciali e i colpi di scena di 007 (e la presenza di Pierce Brosnan non è un dettaglio), senza strumenti sofisticati o inseguimenti, eppure avvincente e veloce come un meccanismo di altissima precisione. A cominciare dall’inizio, la “passeggiata” tra le strade notturne di Londra da parte di un Michael Fassbender imperturbabile che lo porta ad un incarico spinoso: trovare la talpa all’interno dell’agenzia di intelligence che ha trafugato un programma software top-secret noto come Severus. Qualcuno all’interno dell’organizzazione sta cercando di venderlo al miglior offerente e tra i cinque possibili sospetti c’è l’amatissima moglie di George, che deve indagare e chiudere il caso in una settimana.
Black Bag – Doppio gioco inizia dalla fine, da una cena con i sospettati in cui George serve il chana masala, arricchito con un narcotico che disinibisce chi lo assume, come fosse la macchina della verità (che sarà di fatto usata in una scena altrettanto enigmatica quasi nel finale). “Non mangiare il chana masala” dice infatti George a Kathryn, e fin da subito sappiamo quale sarà l’alchimia di questa coppia nell’economia gelida della narrazione di Soderbergh. Perché assisteremo a una girandola di messe in scena, sotterfugi, esche e manipolazioni, ma i dialoghi e la prossemica si incastonano alla perfezione e sono rivelatori dei giochi di potere e di forza che coinvolgono tutti i protagonisti di questa storia, anche a loro insaputa. La macchina da presa li asseconda e li enfatizza con angoli di ripresa da interrogare come oracoli per proseguire il viaggio nella mente di un agente di alto livello che supervisiona il Centro nazionale di sicurezza informatica del Regno Unito. Un esempio tra i più riusciti è proprio la lunga scena della cena iniziale in cui George e Katryn sono l’unica coppia seduta l’uno di fronte all’altra, mentre i quattro ospiti hanno posto vicino al rispettivo partner. Si innesca il primo fatale stratagemma di George per arrivare alla verità (che pure, ci fa capire il regista, è impossibile da stabilire fino in fondo): suggerire uno scontro per osservarne la reazione. Tessere trame psicologicamente intricate non per trovare la talpa, ma per far cadere in trappola il malcapitato traditore.
Nessun indizio ci è concesso, perché non siamo parte del gioco, anzi, restiamo a distanza grazie al bagliore di luci che avvolgono i primi piani e inondano gli ambienti rendendoli algidi e inaccessibili, appunto, come le geometrie del pensiero del protagonista, capaci di farci attraversare con eleganza estrema vere e proprie montagne russe psicologiche e sentimentali. Tra Hitchcock e John le Carré, tra voyerismo e controllo. Tutti sono osservati e tutti osservano, anche quando non sembra possibile, anche dall’altra parte del mondo. Black Bag è un itinerario spionistico e al contempo un melodramma, dove lo sguardo è il punto di partenza e di arrivo di una doppia esposizione. “Io guardo lei e presumo che lei guardi me” dice George a proposito del matrimonio con una spia. “Posso sentire quando mi guardi”, dice Katryn in camera da letto.