È curiosa la traiettoria di L’amore che non muore, diretto da Gilles Lellouche e presentato in concorso a Cannes nel 2024. Non tanto perché il titolo originale, L’amour ouf, faccia il verso all’amour fou surrealista (ne scrisse André Breton negli anni Trenta del secolo scorso), giocando anagrammaticamente con lo slang transalpino per rimarcare la definizione mentre se ne emancipa. E nemmeno perché il distratto titolista italiano abbia puntato sulla riproposizione dell’enfasi già sfruttata per un film francese (La veuve de Saint-Pierre di Patrice Leconte, del 2000). Non è certo una novità, poi, il cortocircuito tra l’accoglienza della critica sulla Croisette, meno che tiepida, e quella del pubblico francese nelle sale, trionfale (tanto che ora Lucky Red cerca il non facile bis in Italia). La bizzarria maggiore consiste piuttosto nell’aver lanciato come musical un film che chiede tanto alla colonna sonora (e parecchio ottiene in cambio, in termini di pathos), ma che musical assolutamente non è, rivelandosi invece un coacervo di ispirazioni diverse che trovano sgangherata sintesi nel melodramma con innesti da rom-com, da teen-movie, da romanzo criminale, da dramma famigliare.
La storia si dipana a partire dagli anni Ottanta in una città portuale nel Nord della Francia, dove vivono gli adolescenti Jackie e Clotaire. Sulla carta, frequentano lo stesso liceo, ma lui – diciassette anni, famiglia operaia e numerosa – staziona di fronte all’ingresso e in classe nemmeno ci entra, mentre lei – quindicenne borghese, con padre vedovo e apprensivo – affronta le lezioni senza voglia. È colpo di fulmine, anche se in prima battuta la ragazza non fa capire di essere folgorata; ma è solo per tenere sulle spine il bullo di cui ha intravisto l’anima tenera. Non ci vuole molto, infatti, perché sbocci una passione travolgente. Ma Clotaire si fa attrarre dal guadagno facile, viene cooptato nella gang cittadina dopo un furto poco ortodosso dal freezer della scuola (!), e paga conseguenze sproporzionate dopo una rapina degenerata, finendo in carcere. Passano gli anni, ma in una vecchia musicassetta con le iniziali J e C collegate da un cuore, il ritmo delle canzoni dei Cure (amati da Jackie, in principio sconosciuti a Clotaire) continua pulsare un sentimento vertiginoso, pronto a risvegliarsi: basterà per reggere l’urto della vita? Alla seconda regia solitaria (prima di 7 uomini a mollo, nel 2018, aveva infatti partecipato a un paio di opere collettive), il prolifico attore Gilles Lellouche abbandona ogni misura, mettendo in scena un film che accumula spinte narrative distoniche, elementi stilistici disomogenei e citazioni in serie dentro un racconto di due ore e mezza abbondanti che – prima della definitiva sforbiciata in sede di montaggio su suggerimento della produzione – era più lungo di almeno un’altra ora.
Alla base c’è un romanzo dell’irlandese Neville Thompson (Jackie Loves Johnser, Ok?), sceneggiato dallo stesso regista con Ahmed Hamidi e Audrey Diwan, che raccoglie per strada stimoli e influenze di ogni tipo: dalle riprese di sghemba geometria à la Tarantino o di estrema fluidità in omaggio alla Nouvelle Vague; dai barocchismi scorsesiani agli ammiccamenti da commedia musicale con relativi debordamenti cromatici e sonori; dal flashback classico fino a un utilizzo quantomeno discutibile dell’artificio delle sliding doors, che ha il sapore dell’indizio fuorviante più ancora che del virtuosismo fine a se stesso. La strategia complessiva fatica a palesarsi, quasi che l’autore si riservi la possibilità di cambiare strada fino alla fine; o, più probabilmente, risente dei cambi di direzione in corsa e degli adattamenti cammin facendo. Eppure, a prescindere da incertezze, smottamenti e passi falsi, e nonostante l’alchimia mancata dei divi (François Civil, Adèle Exarchopoulos) che interpretano Clotaire e Jackie da adulti, raffreddando l’atmosfera magica creata da Malik Frikah e Mallory Wanecque nei panni dei due innamorati adolescenti, L’amore che non muore è un film che arriva al cuore.
Lo fa anche grazie a un cast forte negli attori di contorno (Alain Chabat, Benoît Poelvoorde, Elodie Bouchez), a qualche chiccha sentimentale disseminata qua e là (gli amanti induriti che piangono all’unisono, seppur a distanza, assistendo tra la folla all’eclissi solare; le 457 parole di cui il semi-analfabeta Clotaire ha imparato a memoria la definizione in carcere, perché lo fanno pensare a Jackie) e a un commento musicale che integra le composizioni originali di Jon Brion con pregevole materiale di repertorio (Cure a profusione, ma anche Daft Punk, Agathe Labernia, Patrick Coutin, Deep Purple, Nas, Caude Barzotti, Michel Colombier, Gilbert Bécaud, Serge Lama, Lil’ Kim e Prince). Sarà forse per il cumulo singolarmente stravagante di contributi tanto eterogenei, ma è indubbio che mentre fai la conta degli errori e cerchi (spesso inutilmente) una spiegazione per le incongruenze, il film ti coinvolge e ti emoziona. Il cinema è anche questo.