Le metamorfosi di Il bacio della cavalletta di Elmar Imanov

Alienazione e straniamento sono i binari su cui si muove l’affondo esistenziale realizzato dal regista azero Elmar Imanov, tanto attento quanto audace nel condurre lo spettatore di fronte alla visione del dolore di un uomo, Bernard (l’interprete russo Lenn Kudrjawizki), costretto a fare i conti con la propria drammatica e triste condizione. Intriso di oscuri passaggi grotteschi accesi da tinte surreali che sfociano nella commedia errante, Il bacio della cavalletta è il secondo lungometraggio di Imanov, abbraccia il realismo magico e sospeso come già accadeva nell’esordio End of season, premiato a Rotterdam con il FIPRESCI, e sceglie di immergersi nelle pieghe aggrovigliate del dolore umano guardando al cinema di Cronenberg e Lynch, ovviamente, ma anche alle suggestioni di Kafka e Burroughs. Il racconto si concentra su Bernard, scrittore in crisi professionale e affettiva che vive con una pecora, vede sgretolarsi il rapporto sghembo con la compagna Agata (Sophie Mousel) e la sofferente relazione con il padre Carlos (Michael Hanemann): rotture, incomprensioni, mancanze sono i segni di un malessere profondo che non riesce a tradurre l’amore per una e per l’altro. C’è un vasto e sommerso vuoto che definisce la vita di Bernard, una forza angosciante che lo investe e una voragine che sembra inghiottirlo senza speranza, tragicità e dannazione permeate da luoghi angusti e cupi, come le pareti della sua abitazione. Tutto precipita quando il padre viene aggredito mentre cammina per strada, riportando una grave commozione celebrale; successivi esami rivelano la presenza di un tumore al cervello e, di conseguenza, la decisione di farsi operare affrontando il peggiore dei rischi.

 

 

Imanov consegna allo spettatore una vicenda molto personale e particolare che chiaramente assume contorni universali in cui dolore e paura si sovrappongono, dove emerge forte il senso di inadeguatezza ma anche di impotenza di fronte alla pigrizia del dolore, condizione che sommerge Bernard, incapace di trovare le energie per ricominciare a scrivere, muovere le idee, far funzionare il cuore. È tutto sospeso, fermo, rallentato, chiuso e confinato nelle percezioni esasperate di rumori dei corpi, suoni della strada, luci artificiali e quasi mai naturali. Silenzi ingombranti, soffocanti, proiettati nell’incomunicabilità: allo scrittore mancano le parole, assenti come le lacrime che, solitamente, sono il dispositivo che disinnesca l’emozione facendo spostare la nostra attenzione dalla mente al corpo, sciogliendo il dolore pscicologico. Non a caso, a proposito del padre, Imanov ha dichiarato: «Sapevo che nessuno poteva capire mio padre ora e da quel momento in poi sarebbe rimasto solo fino alla sua morte. Mi è crollato il mondo addosso. Questo sentimento si è manifestato in modi diversi: a volte con le lacrime, altre con improvvisa iperattività durante una festa. Sono caduto nell’abisso e mi sono sentito un fantasma. Quando mio padre è morto dopo soli dieci mesi, ho iniziato il mio lento viaggio di ritorno alla vita. Un anno dopo la sua morte, quando mi sono svegliato dal torpore, ho scritto la sceneggiatura. Oggi, quando mi guardo indietro, mi sento una persona diversa».

 

 

Le metamorfosi, le sparizioni e apparizioni improvvise (con tanto di cavalletta-personaggio), le fughe e le stranezze amplificano la riflessione sulla solitudine condotta da Imanov. Bernard non riesce a vedere la propria paura come la vediamo noi e non accetta di incontrare dentro di sé questa solitudine spaventosa che lo porterebbe più vicino all’altro e diventare presenza nella sua solitudine. Il regista azero ha bene in mente le parole di Levinas quando scriveva: «il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l’appello all’altro, l’invocazione all’altro. Soffrire non ha senso, ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell’altro è la sola giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità». Bernard soffre perché non accetta di lasciarsi ferire e colpire dalla sofferenza dell’altro, perché non vede la propria vulnerabilità. E in fondo, immersi in quel mare così scuro, ci ritroviamo con l’idea di poterla vedere, prima o poi, tutti.