Su MUBI Un bel mattino di Mia Hansen-Løve: la vertigine della naturalezza

Ancora una volta Mia Hansen-Løve parte da un’esperienza personale per raccontare la storia di Sandra, vedova da cinque anni, che vive da sola con la propria figlioletta. Buona parte del suo tempo, oltre al lavoro e figlia, lo passa in visita dal padre, un professore di filosofia in pensione che sta affrontando una grave malattia degenerativa e non è più autosufficiente. Bisogna cercare una struttura che lo accolga e lo segua, mentre la famiglia intera gli si stringe intorno nel lungo pellegrinaggio tra ospedali e case di riposo, pubbliche e private. Intanto il tempo passa, dall’estate a quella successiva e Sandra (Léa Seydoux) deve svuotare la libreria del padre, rovistare tra i suoi appunti e decifrare il nuovo sentimento per un vecchio amico, che però è già sposato.

 

 

Si pensa a Le cose che verranno con cui questo film ha in comune l’esigenza di una ricostruzione, mentre qualcosa si sgretola davanti agli occhi della protagonista. Lì era un’insegnante di filosofia (Isabelle Huppert) di fronte all’abbandono del marito e alla morte della madre, qui una giovane donna contemporaneamente travolta dalla inarrestabile assenza del padre e dall’improvvisa nascita di un sentimento che credeva di non poter più provare. In entrambi un gioco di catalogazione della vita attraverso i libri, o meglio, librerie che si svuotano e si riempiono, di libri che cercano un nuovo posto e un ordine diverso i cui sistemarsi.

 

 

Si parte come sempre dall’estremamente personale per arrivare all’universale nel cinema di Hansen-Løve, capace di dare serenità agli opposti (sentimenti, situazioni, vicende) e di filmare la vita nella totalità del suo divenire, ma anche nella vertigine di continue ellissi.
Operazione apparentemente facile, invece, a soffermarsi attentamente sulle strategie del racconto, ci si rende conto di quanto lavoro questo abbia comportato in fase di scrittura, prima ancora che sul set. Perché descrivere la vita quotidiana, è cosa assai difficile, quando si decide di attribuire a ogni situazione un peso e a ogni personaggio un suo ruolo definito a tutto tondo. Nulla è mai casuale in questo film e proprio per questo tutto scorre con estrema naturalezza: la leggerezza si estende allo sguardo, la pacatezza dei dialoghi coinvolge il tono della messa in scena. L’essenza del cinema francese (più volte si pensa a Rohmer), ma ripensata in una dimensione completamente contemporanea e femminile, capace, cioè, di annodare l’uno all’altro i discorsi, i sentimenti, i gesti, e di riprenderli nel passare del tempo, mutati, eppure ancora ricchi di senso.

 

 

Così, nel suo girovagare per Parigi, tra strade e metropolitane, parchi, appartamenti e ospedali, Sandra piange e sorride, malinconica eppure vitale. Ritrova se stessa nei frammenti scritti di un padre tanto amato e si arricchisce di saggezza e levità, in un equilibrio soave, sapientemente ricercato – tra silenzi e parole, ripetizioni e rivelazioni – in questo film arioso e pieno di luce, ma anche controllato e minimale. Un film che sa ascoltare e farsi fluido, assecondare i cambiamenti inaspettati e farli splendere e vibrare nella contemplazione di un paesaggio.