Venezia77: Residue di Merawi Gerima e il mai semplice ritorno alle origini

«Perché sei tornato? Odiavi questo posto… hai portato l’unica arma che avevi, una videocamera. Davvero pensi che un film può salvarci».

 

Sono queste le domande che si sente fare Jay (Obinna Nwachukwu) che da Los Angeles torna a Washington DC, nella strada in cui è nato e che ha lasciato quindici anni prima (inizialmente per trasferirsi con la famiglia in una casa più grande in un’altra zona e poi per andare in California a studiare cinema all’università). Tutto è cambiato, lo si intuisce dal primo incontro per strada, una scena emblematica, costruita su un doppio livello, che dà il tono a tutto il film: mentre Jay sta scaricando il suo pick up per sistemarsi nel seminterrato ancora di proprietà dei genitori, un vicino gli chiede di abbassare la musica che proviene dall’auto perché è troppo alta e gli fa notare che è parcheggiato in doppia fila. La velata minaccia («Non costringermi a chiamare la polizia») fa subito intuire i rapporti di forza. Vediamo il vicino solo di spalle, mentre si allontana in bicicletta: è bianco e poco dopo viene detto che «Tanti bianchi si stanno trasferendo nel quartiere». Un quartiere in totale espansione, pieno di cantieri e di agenti immobiliari che oltre a disseminare volantini ovunque (Ready to sell?), tempestano di telefonate le famiglie per indurle a vendere.

 

 

Jay si aggira per le strade, pone domande, ma la diffidenza nei suoi confronti è palpabile: «Non può venire a chiedere informazioni così, dopo 15 anni», commenta un vecchio vicino con cui si intrattiene. Ritrova i vecchi amici Delonte (Dennis Lindsey), Mike (Derron Scott), Dion (Jamal Graham), ma soprattutto cerca Demetrius, il migliore amico dell’infanzia, che sembra essersi dissolto nel nulla, protetto dall’omertà dei conoscenti. Jay non si rende conto che le sue buone intenzioni sono totalmente velleitarie, è convinto di fare un film per «dare voce a chi non ce l’ha, quelli della zona». Di lì a una settimana ha previsto di tornare a Los Angeles per scrivere il film, ma nel prendere coscienza dei cambiamenti inizia ad avere incubi anche perché i suoi amici, ragazzi di strada, invischiati in storie di armi e droga, fanno una brutta fine. La consapevolezza arriva piano piano, dapprima identificando un facile nemico («Questi ragazzi bianchi fanno quello che vogliono e noi a crepare in prigione» e ancora «I bianchi pavimentano l’intera città come se non fossimo mai esistiti»), passando poi al senso di colpa per essersene andato: «Avrei voluto fare qualcosa», dice all’amico Dion in carcere. Decide quindi di prendere posizione, rivendicando il suo senso di appartenenza: «Questa è casa mia», urla aggredendo un bianco, quasi a significare che il suo destino era scritto ed era in linea con quello degli amici d’infanzia.

 

 

 

Residue, opera prima di Merawi Gerima presentato alle Giornate degli Autori,  risulta estremamente attuale nell’affrontare la questione razziale legata alla gentrificazione, ma un po’ programmatico nella scelta manichea di separare bianchi e neri –  tanti gli indizi disseminati nel film che vanno in crescendo: la madre di Jay insultata perché riprende una coppia che ha permesso al cane di fare i bisogni nel suo giardino, i due bianchi che cambiano marciapiede di sera vedendo Jay fermo sulla strada, per arrivare alla coppia di giovani sul tetto che assistendo all’inseguimento a piedi di Jay da parte della polizia si intrattiene sul nuovo nome del quartiere, NoMa, dicendo «La zona è stata pulita da tanto tempo». Originale la costruzione che mischia i piani temporali senza soluzione di continuità fin dalla scena iniziale del ritorno a casa: per strada con uno scatolone appena scaricato dal pick up, Jay si ferma a guardare un ragazzino dietro un’auto dall’altro lato della strada, che gli restituisce lo sguardo e se ne va. Ancora più efficace l’incontro nel parlatorio del carcere tra Jay e Dion che, poco a poco, lascia lo spazio chiuso per spostarsi nel bosco che i due frequentavano bambini. Passato e presente sono un tutt’uno nella testa di Jay che, per quasi tutto il film sembra aggirarsi come in trance, non da regista (non porta mai con sé la videocamera), ma da spettatore passivo, un fantasma in preda ai suoi fantasmi.