Risulta evidente il fatto che Guillaume Senez abbia scelto di collocare al centro del proprio cinema la rappresentazione della precarietà umana: sfumata, contraddittoria, inevitabile, sofferta, che avvolge i tessuti delle trame relazionali, affettive o professionali che siano. Già in Keeper (Miglior film a Torino nel 2015) quando scandagliava le potenzialità e le derive di un amore adolescenziale inarginabile e, ancora di più, poi, in Le nostre battaglie (quattro premi Magritte e Miglior film del pubblico, sempre a Torino nel 2018) il cinema di questo regista e sceneggiatore belga, classe ’78, attraverso vicende non comuni, con al centro personaggi poco allineati in contesti riconoscibili ma alienabili, ha saputo mettere in scena la drammatica condizione di soggetti alle prese con i propri limiti, in netta contrapposizione con sistemi che ostacolavano la ricerca di emancipazione e di conquista della propria libertà. In particolare, un film come Le nostre battaglie spostava il proprio baricentro narrativo sull’asse del rapporto tra reale e quotidiano, tra compimento esistenziale e realizzazione lavorativa, tra vissuto privato e dimensione sociale universale, in grado com’era di interrogarsi sulla precarietà nel mondo del lavoro ma osservando il fenomeno a cominciare dall’interno delle mura domestiche e dalla prospettiva di persone (in quel caso un padre disposto a lottare contro le ingiustizie subite sul luogo di lavoro) tenaci e resistenti nel condurre una esistenza all’altezza della propria dignità.
È quanto accade anche in Ritrovarsi a Tokyo, film in cui Senez ritrova l’attore Roman Duris (già protagonista di Le nostre battaglie) e invita a considerare il profilo di condizioni umane lontane dalla pigrizia esistenziale, in cerca di un’armonia con un mondo che si rende agli occhi di chi lo guarda poco accogliente e disposto ad aspettare chi è in ricerca. Il titolo della distribuzione italiana sposta l’attenzione sul ricongiungimento che avverrà non senza insidie tra padre e figlia, ma l’espressione utilizzata in originale (“la parte mancante”) accende i riflettori sulla dimensione di bisogno che appartiene a ciascun essere umano, rivelandosi titolo molto più giusto e efficace. Qui Senez affida all’attore francese il ruolo di un padre (Jerome) sulle tracce della propria figlia che a causa di stringenti limiti legali non gli è permesso di incontrare: siamo in Giappone, lui è un padre errante, guida il proprio taxi con occhio vigile mosso dalla speranza di riuscire ridurre la distanza con chi gli è stato impedito di vedere. Un film che racconta la vicenda di un uomo errante, vagabondo, alla ricerca della propria anima, perso nella fitta rete di luci e ombre che la città di Tokyo utilizza per nascondere la propria identità. Un europeo, uno straniero, un solitario conoscitore della capitale giapponese, consapevole della propria condizione bisognosa, desiderante, mancante. Di cosa si nutre il suo cammino esistenziale? Dove lo conduce la passione che coltiva nel profondo del suo cuore? Per cosa sarebbe disposto a scomparire? L’osservazione della dimensione paterna di Jerome è inquadrata da una prospettiva insolita, tesa a focalizzare la condizione esistenziale che accomuna tutti coloro che per vivere scelgono di amare incondizionatamente: è il dramma di un uomo, padre e lavoratore, che al di là delle effimere differenze con gli altri, lotta e soffre per la figlia Lily. Un uomo che ama, desidera vivere, lottare e, nonostante tutto, attende fiducioso che la giustizia si manifesti, che ancora mostra il coraggio di chi si domanda quale sia la propria parte mancante.
Un uomo che rappresenta tutti: povero, amante, per questo sofferente. Quel nostro essere patiens, cioè sofferenti nel senso più profondo dell’espressione che guarda sì all’attesa ma nel senso più alto del compimento. E allora dovremmo guardare il film di Senez con gli occhi di chi riconosce nel protagonista Jerome la propria vulnerabilità e precarietà di essere umano. Sempre che si accetti di essere in ricerca, viandanti, pellegrini di una speranza che da qualche parte siamo in grado di visualizzare, cioè prefigurare, quindi immaginare. Peraltro, in un film come questo, dove accoglienza e integrazione alimentano più di un vettore narrativo e più di una riflessione su quanto sia decisivo il dialogo autentico ma anche su quanto sia ardua l’impresa di dialogare veramente, è singolare rileggere l’insidioso finale più che come un atto d’accusa nei confronti di sistemi sociali e politici che hanno fallito (e forse sempre falliranno) di fronte alla questione, come ad un apologo sulla condizione di ciascun essere umano che si trova a vivere in terra straniera. Infine, colpisce la questione decisiva della rappresentazione della figura paterna, non di facile gestione soprattutto se contestualizzata all’interno dell’impianto socio-culturale giapponese che qui assume connotati poco canonici, scegliendo di raffigurare luoghi meno visibili e riconoscibili rispetto alla tendenza. Senez ha dichiarato che per la scrittura della sceneggiatura si è lasciato ispirare da quanto percepito nei viaggi vissuti in Giappone, in particolare quello vissuto durante la promozione del precedente film: «Siamo rimasti affascinati da Tokyo ma abbiamo sentito parlare di queste storie di bambini “rapiti”, di custodia alternata e non rispettata, e questo è stato un aspetto che ci ha coinvolto molto, emozionato ma anche sconvolto.
Ho avvertito una certa continuità con il film precedente anche per esplorare il tema della paternità. In Giappone non esiste l’affido congiunto, c’è una legge nella sua assurdità molto semplice. Risale circa a centocinquant’anni fa e dice che in caso di separazione il genitore che si prende il ragazzino per primo se lo tiene e ha diritto ad avere la custodia del figlio. È un fenomeno enorme riguarda molte coppie giapponesi, ma anche tanti matrimoni misti come quelli che vediamo nel film». Ed è piuttosto evidente riconoscere nelle capacità attoriali di Roman Duris (che già in Animal kingdom si raccontava come padre che amava e consegnava alla libertà il proprio figlio) i tratti di un personaggio doloroso e lucido, dignitoso, tenace e ostinato, disposto a sacrificarsi per il bene più grande e poter riabbracciare la propria figlia nonostante la legge non glielo consenta. Quanto sono lunghi quegli sguardi retroflessi di Jerome che cerca di cogliere dettagli sul volto di Lily dallo specchietto retrovisore del suo taxi? Quanta distanza percepiamo tra di loro? Quanto pesano nove anni di assenza? Anche grazie a questo magmatico intreccio di silenzi e sguardi, il film si colloca in una zona d’ombra rispetto alla restituzione di un set-paese-mondo come il Giappone, cinematograficamente messo in scena con altre attenzioni. Qui assistiamo ad un ribaltamento di prospettiva e nonostante questa dimensione così assurda (per noi occidentali) e complessa, il personaggio di Jerome mostra una grande compassione nei confronti di chi, come la donna che assiste vivendo analoga situazione, si trova a porre domande senza ricevere risposta. Ritrovarsi a Tokyo rinnova l’invito a guardarsi nel profondo e cercare la propria parte mancante, in attesa di trovarla per coltivarla e custodirla, ciascuno con la propria imperfetta umanità.