Man from Tokyo – I Giochi di Marcell

Se la paura continua a fare 90, da ieri la felicità fa 40. Il terzo posto conquistato dalla squadra di ginnastica ritmica, oltre a far sì che in tutte le giornate di gara l’Italia abbia vinto almeno una medaglia, consente di fare conto pari: 40 medaglie, la metà della quali di bronzo, le altre equamente suddivise tra oro e argento. Il bottino più copioso di sempre, a migliorare le 36 di Los Angeles 1932 e Roma 1960, ma non più prezioso, visto che a Los Angels ’84 le vittorie furono 14. A ben vedere la decima posizione finale è la peggiore delle ultime sette edizioni, ma credo proprio che sia un dato destinato a passare inosservato. La magia di queste Olimpiadi è in gran parte racchiusa nell’exploit dell’atletica leggera che dopo l’avvilente zero di Rio ha regalato cinque ori, come mai era successo in precedenza. E tra questi l’oro che più riluce, quello dei 100, la specialità regina della regina dei giochi. Perché è inutile nasconderlo: le vittorie sono tutte belle, ma non hanno lo stesso impatto. Per parafrasare uno dei passi più celebri della Fattoria degli animali di Orwell, tutti gli ori sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Il caso del povero Luigi Busá, il karateka diventato campione olimpico venerdì scorso, tra i successi della Palmisano (che a sua volta deve ringraziare la circostanza di aver concluso la sua gara qualche ora prima di Jacobs e compagni) e della 4×100 è emblematico: spazi modesti su giornali, siti e televisioni, tutti in fibrillazione per i velocisti. Se il pugliese specialista del kumite avesse gareggiato una settimana prima, quando l’Italia collezionava bronzi e delusioni (soltanto due ori nelle prime otto giornate di gara) sarebbe diventato un eroe nazionale.

 

 

D’altronde il destino delle notizie è quanto di più imprevedibile si possa immaginare. Mille volte mi è capitato, da redattore dello sport, di ipotizzare nel primo pomeriggio un’apertura che in serata è diventata una breve, travolta da una serie di avvenimenti, e viceversa di elevare di posizione e quindi di rango notiziole secondarie, ma giunte in assenza di fatti più interessanti. Un altro dato significativo di questi giochi è rappresentato dalle 19 (tenendo distinto il nuoto in piscina da quello in acque libere) discipline che sono andate a medaglia, a testimoniare di un movimento vivo nel suo insieme, ancorché meno brillante in sport come scherma e tiro , tradizionali punti di forza, per non parlare del pugilato, addirittura assente in campo maschile, ma che ha comunque portato alla causa un bronzo grazie a Irma Testa. Il compito più facile, in sede di bilancio, è individuare l’atleta simbolo di Tokyo 2020, che passerà alla storia come l’Olimpiade di Marcell Jacobs e non soltanto per le vittorie in due specialità popolari come i 100 e la staffetta veloce, ma anche perché si è trattato di un exploit inatteso. Se infatti Tamberi, pur reduce da annate difficili, si presentava con un record di 2.39 ed era quindi pronosticabile in zona medaglia, al velocista cresciuto a Desenzano non si chiedeva che l’accesso alla finale, risultato mai ottenuto da un italiano. In realtà i più attenti avevano a disposizione due elementi sufficienti per poter ipotizzare che potesse lottare per il podio. Il primo era lo straordinario 6”47 con il quale a marzo, migliorandosi di ben 16 centesimi (!) si era laureato campione europeo indoor. E quel tempo forniva una proiezione intorno ai 9”90 e anche meno sulla distanza all’aperto. Il secondo, più che il 9”95 di Savona, è stato la gara di Montecarlo dello scorso luglio, quando giunse terzo in 9”99 a ridosso di Baker e Simbine e mettendosi alle spalle il canadese De Grasse e lo statunitense Bromell, che aveva vinto i Trials in 9”80. Due le buone notizie: l’italiano non temeva il confronto con i più forti del mondo e il grande favorito correva due decimi meno veloce. Nella storia dei 100 metri non era mai accaduto che il successo venisse conquistato da un atleta che la stagione precedente occupava il ventiduesimo posto del ranking mondiale con un tempo superiore di 30 centesimi (10”10 a Trieste proprio il primo agosto 2020) a quello corso per vincere l’oro a Tokyo.

 

 

E la sostanza non cambia se usiamo come riferimento il personale di Jacobs, 10”03 del 16 luglio 2019. E stiamo parlando di un atleta nato nel ’94, quindi non di primissimo pelo. Non possiamo pertanto stupirci se la stampa statunitense e inglese ma anche l’Equipe) si interroghi maliziosamente su questi miglioramenti. Detto che in questi ultimi mesi Jacobs è stato sottoposto a numerosi controlli antidoping che sono risultati tutti negativi e che questo chiude il discorso, i colleghi di lingua anglosassone (e i francesi) probabilmente non conoscono la singolare vicenda sportiva del neo campione olimpionico. Il quale, fino al marzo del 2019, ormai venticinquenne, si dedicava prevalentemente al salto in lungo, specialità nella quale vantava un 8,07 indoor del 2017, dopo che l’anno precedente all’aperto era atterrato a 8,48 con un vento a favore superiore al limite tollerato. In quel (benedetto, con il senno di poi) marzo 2019 agli Europei di Glasgow, Jacobs incappò in tre nulli che lo indussero, in accordo con Paolo Camossi, già triplista da 17 e rotti, suo allenatore dal 2015, ad abbandonare il lungo per dedicarsi alla velocità. Quindi sì, Jacobs è prossimo ai 27 anni, ma soltanto da due si dedica davvero ai cento ed il primo è stato pesantemente condizionato dalla pandemia. Possiamo allora dire che Marcell ha cominciato a raccogliere i frutti dell’intenso lavoro suo e dello staff del quale fa parte dallo scorso settembre la mental coach Nicoletta Romanazzi (che segue anche Luigi Busà) il cui contributo è stato sicuramente rilevante, agli europei indoor di Tolum. E lì è iniziata la galoppata culminata negli ori di Tokyo. La mia ultima giornata a Tokyo 2020 è stata dedicata alle finali di boxe, ospitate in un altro tempio dello sport, quello che solitamente riservato ai combattimenti di sumo, la Kokugikan Arena. Il destino ha voluto che l’ultimo match abbia registrato il successo di un supermassimo uzbeco, il gigantesco Bakodir Jalolov, acclamato da una ventina tra atleti e giornalisti suoi connazionali, tra i quali ho inutilmente cercato il mio Borat, che deve essere proprio rientrato. Sia al momento del verdetto (unanime) sia durante l’esecuzione dell’inno, il campione olimpico piangeva come un vitello (non ho mai visto un vitello piangere, né tantomeno un riccio scopare, se è per quello, ma si suole dire così) immagine sempre toccante e a maggior ragione quando il protagonista è alto due metri, pesa almeno 91 chili, limite minimo della categoria e ha appena preso a cazzotti un suo simile. Sempre in tema di (apparenti) contrasti, segnalo che i pugili salivano sul ring accompagnati dal primo movimento della sonata per pianoforte numero 14 Al chiaro di luna di Beethoven. Non sono andato alla cerimonia di chiusura: ho già spiegato che non mi piacciono le cose che finiscono e ancor meno gli arrivederci così avanti nel tempo, anche se stavolta sono tre anni anziché i consueti quattro. Ma se Parigi è vicina, il 2024 mi sembra così lontano…

 

La cerimonia di chiusura