Probabilmente il nome di Jerome Hiler dice ben poco anche riferendosi ad un pubblico avvertito e informato. Eppure il suo cinema è nato dalle istanze più originarie di questa ossessiva settima arte, che ormai attraversa con la sua presenza tre secoli e se pure sembra sempre sul punto di sparire, resta invece ben salda dentro ogni immaginario. Hiler rappresenta, insieme ad altri cineasti sia detto senza riserve, proprio la sempre magnifica ossessione del cinema e i suoi film, in rigorosa pellicola 16mm e spesso proiettati a 18 fotogrammi al secondo, nascono da una quotidianità che sembra solo leggermente alterata da una concatenazione che si raddensa attorno ad una fortissima presa su una realtà personale. Ma con tutto ciò il suo cinema non è diario filmato, non è nulla di quanto possa assomigliare ad un reality. Il Festival di Pesaro grazie alla cura di Federico Rossin e Rinaldo Censi ha dato spazio e schermi a questo cinema sconosciuto, nato da esigenze personali, di un artista appartato, nato nel 1943 e il cui cinema, come riportano le note biografiche del Catalogo del Festival, è stato per lungo tempo oggetto di visione per un ristretto gruppo di amici. Solo nel 2010 Hiler ha cominciato a fare vedere i suoi film ad un pubblico sempre più numeroso e il mondo del cinema si è accorto di lui tanto che il New York Film Festival e l’Harvard Film Archive hanno organizzato retrospettive del suo cinema. Quella organizzata dal Festival di Pesaro è la prima retrospettiva dei film dell’artista in Italia. In apertura una immagine tratta da Words of Mercury (2011) di Jerome Hiler.
Jerome Hiler è un esperto di vetrate di chiese medievali e, confermato anche dalle sue stesse parole, il suo cinema nasce proprio da questo studio e soprattutto insiste sul fatto che nulla è stato inventato nel cinema poiché quegli artisti, che hanno arricchito con il loro lavoro i luoghi di culto, avevano già inventato tutto in materia di colore e di profondità di campo. Da queste premesse il suo non può che essere un cinema nel quale la parte materica del colore e la sua assonanza con l’immagine diventano momento centrale della ricerca di Hiler. Il suo lavoro, infatti, si sviluppa attorno ad una ricerca attenta del colore come tema costante di una espressività in divenire, ed è per mezzo del colore che il suo cinema si caratterizza e prende forma. Un colore che Hiler ottiene con cinque sovrapposizioni che danno vita a quella naturale sperimentazione visiva alla quale i suoi film appartengono di diritto. Lontano da ogni intervento digitale, il suo è un cinema che rifiuta la narrazione, se non per brevi tratti in film come The stone house, iniziato nel 1967 e terminato nel 2012, nel quale appaiono le riprese di vita quotidiana con il suo compagno Nathaniel Dorsky. Il suo lavoro nasce dalla elaborazione dell’idea di pittura che ha caratterizzato e continua a segnare la visione artistica che gli ha permesso di concepire i suoi film. È per questa ragione che il suo cinema, come quello di molti altri filmmaker-artisti che hanno attraversato le scene del cinema con l’intenzione di raccontare i suoi meccanismi più che utilizzare la macchina da presa come strumento di narrazione o di esposizione di una propria idea sulla vita, è difficile da esporre attraverso le parole, essendo solo quelle immagini il senso centrale della ricerca, quelle sequenze – che Hiler ha soprattutto realizzato con la sua Bolex degli anni ’60 – a potere spiegare con evidenza manifesta la direzione di quel lavoro artistico.
Film come New shores del 1971/2014 o Words of Mercury, il film più invernale e morente del suo cinema del 2011, Bagatelle I del 2016/2018 e Bagatelle II del 1964/2016 o ancora Marginalia del 2016, nel quale è evidente il richiamo ai marginalia medievali e nel quale riporta la sua angoscia per i mutamenti culturali in atto e per i temi ecologici che affliggono il pianeta. Fino ad arrivare ai film quasi contemporanei a testimonianza di una incessante attività del regista che continua ancora in questi anni: Cinema before 1300, un film del 2023 che resta un’indagine straordinaria sul mondo dell’arte delle vetrate in una concezione parallela a quella del cinema, e Careless passage del 2024, un film nel quale il tema della coscienza personale e collettiva diventa strumento di ricerca interiore e il cinema si unisce a questa ricerca di equilibrio contribuendo a diventare occhio migrante e inquieto che traduce paure e incertezze. Tutti film recenti che hanno un’aura artistica e un appeal da vecchio cinema anni ’50 nei quali sembra essere scivolata addosso ogni istanza digitale, ogni manipolazione dell’immagine.
Il cinema di Hiler ci obbliga ad un rapporto con l’immagine che destabilizza la visione, ci obbliga a confrontarci con un’idea di assoluta autenticità del cinema, ci aiuta a tirare fuori quel lato segreto e meditativo che come spettatori apprezziamo nel cinema quando questa arte ci aiuta a farlo, assomigliando a quelle altre espressioni come la poesia, la pittura e soprattutto la musica, che sembra siano state sviluppate solo per far questo. Per questi motivi crediamo che la frase di Theodor Adorno, che sugella la presentazione di Censi della Sezione nel Catalogo del Festival, sia perfetta per definire il lavoro complesso di Jerome Hiler: L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità.