L’amarezza di fondo è sempre lì, come pure lo scostamento rispetto al sentire comune, la disappartenenza al mondo degli altri che rende i suoi personaggi così aspri, intransitivi. Ma, rispetto a Raw e soprattutto al pletorico Titane, il terzo lungometraggio di Julia Ducouneau, Alpha (che ha attraversato senza palmarès il Concorso di Cannes 78), ha in dote un sentimento della sofferenza che lo rende più umano, meno “titanico”… È sostanzialmente un film sul dolore, meno centrato sull’egotismo (ma anche sull’erotismo) performativo dei precedenti film, dove il corpo era materia da giocare in eccesso, tra antropofagia e mutazione. Alpha si struttura su un sentimento di empatia sinora ignoto al cinema della Ducournau e affronta la sofferenza come una condizione condivisa, che promana dal corpo comune di un’umanità vessata da un virus che riduce la carne in materia solida, cristallizzando il male, la morte, in una metamorfosi marmorea della carne. Il ritorno all’adolescenza (raccontata nel primo cortometraggio della regista, Junior) porta in dote una insicurezza e una fragilità che rendono la protagonista, Alpha, una presenza meno oppositiva rispetto alla realtà.
Siamo in un mondo retrodatato e l’ambientazione negli anni ’80 crea una profondità prospettica del tutto particolare: il rimando al virus HIV è evidente e, se dialoga con la recente pandemia, in realtà crea per la Ducournau uno scenario noto alla sua esperienza di adolescente spaventata dall’AIDS. Ne risulta un paesaggio umano e sociale piagato dall’oscurantismo di una paura diffusa, in cui la tredicenne Alpha torna a casa da una festa sballata e con una A tatuata sul braccio: la cosa suscita l’apprensione della madre infermiera (Golshifteh Farahani), terrorizzata dall’idea che la figlia abbia contratto il terribile e incurabile virus che si diffonde attraverso il sangue. I corpi marmorizzati che giacciono agonizzanti nelle corsie dell’ospedale in cui lavora sono lo specchio di carne della sofferenza diffusa, che per la donna si incarna anche nella presenza/ricordo del corpo consunto prima dall’eroina e poi dal virus di suo fratello Amin, che ama, protegge e cura disperatamente. Presenza decisamente perturbante sin dalla prima apparizione notturna (incredibile la metamorfosi in sottrazione di Tahar Rahim, opposta a quella anabolizzata di Vincent Lindon in Titane), Amin si offre ad Alpha come uno spettro che cristallizza la sua paura del mondo e al contempo il suo bisogno di una relazione (affettiva) che scavalchi l’angoscia del presente e crei una profondità prospettica altrimenti occlusa.
Nella triangolazione tra la ragazzina, la madre e lo zio si realizza l’incubo di un mondo immerso nella paura e nell’amore, tanto quanto nel bisogno di vita, libertà, fuga di Alpha si evoca uno spazio di realtà più oggettiva. Che però è destinato a schiantarsi nella spinta finale del film verso la smaterializzazione del tempo e dello spazio, quando i livelli di memoria, realtà, azione e astrazione si confondono. Quello che conta, in definitiva, è che con Alpha Julia Ducournau abbia creato un mondo che regge il proprio dolore, lo teme ma non lo rifiuta, ritrovando una quadratura tra il corpo performativo e i sentimenti che gli appartengono al di là della rabbia, del rigetto, della mutazione. La fotografia di Ruben Impens, magnifico DOP belga che già in Titane aveva dato tantissimo, lavora su una porosità dell’ombra che dialoga in chiave sbiadita con i rossi e i blu della carne viva o marmorizzata. Ma è la triangolazione tra le presenze di Golshifteh Farahani, Tahar Rahim e della giovanissima Mélissa Boros a offrire la materia umana più concreta del film.