I cuori di tenebra di Mani nude di Mauro Mancini

In avvio di Mani nude c’è lo strano rapimento del ventenne Davide (Francesco Gheghi, miscela convincente di arroganza e fragilità), dopo una serata in discoteca, in una cittadina dell’Italia meridionale. Che il fatto non sia casuale è subito chiaro allo spettatore; le sue ragioni emergeranno invece nel corso della narrazione, anche se una cortina di mistero continuerà ad avvolgere gli esecutori dell’operazione, più che i mandanti, e la reale portata dei loro affari. Dopo una prova di sopravvivenza superata di slancio (e con sorpresa assoluta dei suoi aguzzini), il protagonista si ritrova comunque prigioniero di una gang dedita all’organizzazione di lucrosi combattimenti clandestini, a mani nude, all’ultimo sangue. L’alternativa che si presenta allo smarrito Davide è più o meno quella degli antichi gladiatori: “Combatti o muori”. E anche la prospettiva ulteriore, quella che va aldilà della pura sopravvivenza, è in fondo la medesima: vinci sempre, e infine sarai libero, padrone di te stesso. Non è forse quello che ha fatto Minuto (Alessandro Gassmann), il rude allenatore che si è guadagnato il soprannome per la velocità con la quale – da lottatore a sua volta, in un passato ormai lontano – risolveva le pratiche e che ora istruisce di malavoglia il ragazzo, pur vedendo che apprende rapidamente? Recluso in un luogo che non concede vie di fuga, escluso pure da quel minimo di relazioni sociali che invece sono concesse ai suoi compagni di disavventura, Davide uccide per stare a galla, costruendosi una fama nell’ambiente e annaspando in cerca di orizzonti di libertà. Finchè la sua impazienza non genera conseguenze inattese, cambiando l’inerzia dello status quo e il suo stesso destino.

 

 
Al secondo lungometraggio dopo il pregevole Non odiare (debutto del 2020, che seguiva vari corti e parecchi spot pubblicitari), il regista frusinate Mauro Mancini (classe 1978) conferma uno stile fondato su un solido senso del racconto, atmosfere cupe ed opprimenti, una tensione inarrestabile verso il cortocircuito tutto contemporaneo tra colpa e redenzione. E risolve, indirettamente, un equivoco nato all’esordio, quando non sceglieva (rischiando qualcosa sul piano della coerenza narrativa) tra un cinema d’impegno civile, anche di denuncia, e la volontà evidente di indagare le dinamiche – sovente sorprendenti – che si sviluppano in situazioni estreme ed imprevedibili. In Non odiare, Mancini aveva preso spunto da un fatto di cronaca tedesco del 2010, quando un medico rifiutò di operare un uomo con un tatuaggio nazista. Costruendoci poi intorno la vicenda di Simone Segre (uno strepitoso Alessandro Gassmann), chirurgo ebreo di Trieste – con un problema irrisolto verso il padre sopravvissuto alla Shoah – che soccorre la vittima di un pirata della strada ma, una volta osservati i simboli nazisti incisi sulla pelle del ferito, non fa quanto potrebbe per salvarlo. Salvo essere in seguito travolto da un malessere crescente, tanto da cercare un contatto con i figli dell’uomo, così esponendosi a reazioni e situazioni inaspettate, che lo costringono a guardarsi dentro come mai aveva fatto prima.

 

 
Con Mani nude, adattamento di un romanzo di Paola Barbato, l’azione si colloca in un Sud poco definito (anche se il film è stato girato in Calabria), ma il regista lavora allo stesso modo, cioè per sottrazione, puntando più sugli sguardi insistiti, sui silenzi e sull’azione che non sui dialoghi, generando un andamento lento che accelera improvvisamente, con dispiego di toni sommessi eppure fermi che provano a fissare emozioni e sentimenti difficilmente afferrabili, laddove la fatica del perdono bisticcia con la persistenza di un rancore che nemmeno conosce la propria origine. C’è di nuovo Gassmann, nei panni del “cattivo maestro” Minuto, ad assumere su di sé il peso di una consapevolezza che gli altri personaggi (Davide in testa) non hanno, anche se la sua prova è meno articolata della precedente; ma l’attenzione è rivolta per lo più a Davide, al suo sghembo percorso di formazione e riscatto, che si scontra con la durezza del mondo. È un universo notturno e spietato quello messo in scena da Mancini, con rari sprazzi di luce che attraversano cuori di tenebra inchiodati dai propri errori, in cui la musica originale composta dal visionario Dardust (alla prima esperienza quale autore di colonne sonore) alimenta l’inquietudine febbrile della vicenda. Non che il cineasta laziale rinunci aprioristicamente alla speranza, ma le fa fare i conti con l’asprezza del reale, in un finale tanto incisivo (mentre sfumato era quello di Non odiare) quanto amaro.