Il malessere patinato: Julianne Moore nel remake di Dopo il matrimonio di Bart Freundlich su MioCinema

«Non ho finito», grida in lacrime Theresa al marito Oscar nella scena madre delle scene madri verso l’epilogo di un film scompensato proprio dalle scene madri. La fine è il fine ma risulta essere la vera assenza in Dopo il matrimonio, il settimo lungometraggio scritto e diretto da Bart Freundlich, il quinto realizzato con la moglie Julianne Moore (dopo I segreti del cuore, 1997, World traveler, 2001, Trust the man, 2005, e Uomini e donne, 2006), musa ispiratrice ma anche produttrice di questo remake dell’originale di Susanne Bier del 2006. In questo caso c’è Isabel (Michelle Williams), direttrice di un orfanotrofio di Calcutta, che riceve una lettera da una potenziale benefattrice disposta a sostenere le attività della struttura. Dopo vent’anni di assenza, la ragazza torna così a New York per incontrare la facoltosa Theresa Young (Julianne Moore), che conduce una vita apparentemente felice con il marito Oscar Carlson (Billy Crudup), in attesa che la figlia ventunenne, Grace (Abby Quinn), si sposi. A differenza del melò danese candidato all’Oscar, il film di Freundlich inverte dunque il genere dei personaggi protagonisti, traduce la trama al femminile, evita il rigido codice stilistico della Bier, principalmente improntato sull’uso della camera a mano e sulla scelta dei piani ravvicinati, e adotta uno sguardo più convenzionale e accomodante, totalmente privo di un’identità distinguibile. Un film sul tempo, sui legami, sulla responsabilità, si dirà che questo è un film sulla vita e sulla verità, senza dubbio, ma innocuo perché raccontato senza onestà e, soprattutto, senza l’intenzione di interpellare lo sguardo dello spettatore.

 

 

È un problema di misura e di immagine. Dopo il matrimonio è un film che tenta di catturare e impietosire lo spettatore attraverso la messa in scena di una crisi esistenziale che sfocia nella rappresentazione di un grande disagio interiore, un profondo senso di colpa talmente ineludibile da sfuggire a ogni forma di controllo, di rispetto, di distanza. La forma è talmente patinata che il senso dell’operazione suona in tono ricattatorio se non presuntuoso come dimostra l’utilizzo esplicitamente simbolico di due immagini collocate all’inizio del film. La prima: Theresa cammina nel bosco, incontra un albero sradicato e crollato a terra (la fine!), trova un nido al cui interno vi sono le uova rotte di un uccello (la fine!!); lo sguardo di Theresa si dirige verso il cielo. Stacco. Inquadratura aerea che schiaccia il corpo di Theresa (la fine!!!). La seconda: Isabel esce furiosa dallo studio di Theresa, dopo aver trattenuto la rabbia cerca di sfogarsi in solitudine; prende le scale per uscire dall’edificio, si toglie le scarpe e inizia a scendere le scale. La macchina da presa insegue per un attimo Isabel fino al momento in cui il nostro sguardo intercetta la forma a spirale delle scale. Lo scarto tra queste due immagini, cifra del dramma e del mistero, è la misura con cui Dopo il matrimonio affronta il senso del vivere, del morire e del rinascere. Emergono e restano così soltanto le prove attoriali, in particolare quella di Michelle Williams ancora una volta capace di offrire alla sua interpretazione una densità di sfumature, anche semplicemente connotate dai silenzi, dagli sguardi, dal movimento frenetico del suo corpo, dalla dolcezza dei sorrisi, che arricchiscono la complessità drammatica del suo personaggio.