L’ombra dei segreti: a Cannes78 The Sound of Falling di Mascha Schilinski

La memoria delle case, come quella dei corpi che le hanno abitate, è uno spazio condiviso fatto di dolori, sentimenti, desideri, paure, sospensioni. È in questa profondità che la tedesca Mascha Schilinski trova le misure di The Sound of Falling, la sua opera seconda presentata in Concorso a Cannes78: cinema di rarefazione sensoriale che dialoga con la portante trasversale del tempo, a scomporre la linea narrativa in un flusso di coscienza che tiene insieme quattro epoche, quattro generazioni che hanno vissuto nella medesima fattoria di famiglia. Storie dilaniate dal peso dei legami e dei bisogni, sulle quali la regista interviene con una pulsionalità che dialoga con l’istinto della prima Jane Campion, ma anche con le dispersioni sensoriali e psicologiche del miglior Philip Gröning, per restare all’ambito tedesco in cui del resto la Schilinski s’è formata. Come fosse un horror della coscienza The Sound of Falling assume come scena ideale l’intreccio di pulsioni esistenziali che prende corpo in una fattoria, offerta al susseguirsi di generazioni che vi hanno abitato dall’inizio del ‘900. Una successione di relazioni immerse nell’ombra dei segreti di famiglia che appartengono immutabili al trascorrere degli anni: la morte, il dolore, i desideri, la sottomissione regolano la meccanica delle vicende, tutte focalizzate in una prospettiva rigorosamente femminile, opposta alla sfera patriarcale in cui tutto è immancabilmente immerso.

 

 
Un intreccio di destini familiari che parte dallo sguardo della piccola Alma che dialoga con la morte attraverso la somiglianza con una sorellina deceduta prima che nascesse, L’ossessione per le foto post mortem, parla di pose che fingono la vita tanto quanto di vita che si mette in posa per nascondere i segreti… In casa giace dolorante Fritz, al quale i genitori hanno risparmiato la guerra procurandogli l’amputazione di una gamba, immobilizzato in una condizione che sarà un po’ il luogo mentale di tutto il film, uno spazio esistenziale occluso e ottuso che cova segreti inconfessati eppure noti a tutti. Ad Alma, che vede la sorella uccidersi piuttosto che andare in sposa all’uomo che l’ha comprata dal padre, succede poi Erika, la quale subisce la durezza del marito mentre è attratta da quello zio Fritz che, ormai adulto, giace ancora nel suo letto. Ma c’è anche la storia di Trudi, la giovane serva, resa infertile per poter soddisfare i bisogni degli uomini della fattoria che dialoga con la sensualità in cerca di libertà che negli anni ’80 delle due Germanie guida invece Angelika, nipote di Erika, la quale cerca e subisce le attenzioni dello zio Uwe mentre tiene a bada quelle più sincere del cugino Rainer…

 


 
Mascha Schilinski lavora tra spazio e figure per ottenere un confronto profondo con la tensione sensoriale della messa in scena: è tutto un gioco di riflessi, chiaroscuri, risonanze visive e sonore che illudono lo sguardo e cercano l’intimità, il contatto fisico, la prossimità psicologica. C’è molto istinto nel suo filmare, ma anche altrettanta maniera, va detto: insiste troppo su vezzi visivi, cerca troppo la complicità con le attese pulsionali dello spettatore, aderendo a schemi di sperimentazione visiva che alla lunga appaiono un po’ scolastici. La durata eccessiva non aiuta il ritmo, che invece in un film eminentemente visivo come questo deve avere la cadenza giusta. Insomma, c’è tanto talento in questa giovane regista, che merita di essere liberato dall’istinto di maniera in cui rischia di restare intrappolato.