L’uomo del labirinto: cavie senza carne nel dedalo di Carrisi

Tronfio e sostanzialmente privo di fantasia, il cinema di Donato Carrisi è l’espressione di una visione sclerotizzata del gioco mentale che presiede alle dinamiche più classiche del thriller. Evocativo e anestetizzato, invece che intrusivo e doloroso, L’uomo del labirinto si offre come un giallo a chiave multipla, in cui lo spettatore non deve accampare pretese indagative, né di natura narrativa né, ancor meno, di matrice introspettiva, ma si deve limitare a soggiacere al gioco di una scrittura che, nel passaggio dal letterario al filmico, non perde rigidezza né guadagna trasparenza. Seguendo la pulsione surreale di una indagine avvitata su se stessa, Donato Carrisi spinge il suo mental thriller nel labirinto in cui finisce prigioniera la sua protagonista, Samantha Andretti, ragazzina quindicenne rapita da un uomo con la maschera da coniglio bianco e risvegliatasi dopo quindici anni nel letto di un ospedale, guardata a vista e aiutata a ricordare gli eventi dal Dottor Green (Dustin Hoffman), uno psicologo che pretende di catturare il suo rapitore. La scena ospedaliera si alterna a quella non meno astratta e irreale in cui si muove un altro investigatore, Bruno Genko (Toni Servillo), un detective privato dall’aria stazzonata, che utilizza gli ultimi giorni di vita concessi dal suo male incurabile per scoprire la verità sul rapimento di quella ragazza che quindici anni prima non era riuscito a salvare.

 

È evidente che Carrisi gioca a liofilizzare i vissuti psicologici dei suoi personaggi, per diluirli poi in un universo privo di caratteristiche fisiche reali: come già in La ragazza nella nebbia, anche qui non c’è carne, né dolore, né colpa o innocenza. Tutto si risolve nel gioco plastico di un thriller in sé concluso, privo di pathos perché privo di sentimenti: non c’è paura, né tensione, manca la catarsi tanto quanto la nemesi, ci sono solo pedine intinte nelle loro funzioni narrative. Carrisi sembra interessato a costruire esperimenti di laboratorio in cui utilizza cavie di pelouche, il che potrebbe anche essere interessante se solo il suo cinema avesse una sua identità e non si limitasse a riprodurre come mero gioco scenografico e fotografico lemmi appresi alla scuola di maestri come Bava, Argento, Carpenter, che pure lo scrittore regista deve amare non poco. Il risultato è un film che guarda negli occhi il bianconiglio carrolliano senza scorgervi l’angoscia, ma limitandosi a seguirlo in un buco dove oscurità significa solo buio, labirinto significa avvitamento, realtà significa scenografia. Non basta assumere il principio per cui la narrazione non ha un’entrata né un’uscita per potersi permettere il lusso di intrattenere lo spettatore in cerca di detection offrendogli mere ipotesi. La messa in scena accademica banalizza ogni possibilità di fuga prospettica nell’immaginario, così come gli interpreti di rango nazionale e internazionale non bastano a far pulsare personaggi appena sagomati.