Venezia77: Non vedere altro che il fantasma del desiderio in Kitoboy di Philipp Yuryev

È un film sul desiderio, sulla sua natura essenziale, sconcertante, irriducibile e ritornante. Kitoboy (The Whaler Boy), presentato all’interno delle Giornate degli Autori, scritto e diretto da Philipp Yuryev, è un film inevitabilmente costruito sulla struttura del romanzo di formazione che guarda alla particolare condizione dell’essere uomo e ai modi con cui l’esperienza umana si interfaccia con ciò che gli si impone. Il desiderio come misura di un vuoto, presenza di un’assenza che può essere colmata, manifestazione di una presa di coscienza, rivelazione di un’apertura verso altro e oltre che stordisce a tal punto da rendere ciechi. Leshka vive in un villaggio sperduto sullo Stretto di Bering che divide la Russia dagli Stati Uniti, tra il circondario autonomo della Čukotka e l’Alaska. È un adolescente ed è anche un cacciatore di balene, come la maggior parte delle persone nel paese. Da poco, è possibile accedere a Internet. L’unico momento di conforto per i ragazzi è diventata una video chat erotica che si interrompe continuamente. Il buffering, comunque, non impedisce di osservare giovani donne che vivono a migliaia di chilometri di distanza. Per tutti sembra essere poco più che un passatempo divertente, per Leshka invece si trasforma in una cosa seria quando si imbatte in una ragazza che gli cambia la vita. Raggiungerà l’Alaska?

 

 

È proprio nel corso della sua ostinata fuga verso un orizzonte ignoto che Leshka mette a fuoco il proprio sguardo e fa i conti con il peso del suo desiderare e del suo modo di stare al mondo. Sull’isola, per la prima volta in una scena dalle inquadrature insolitamente di ampio respiro, c’è il dialogo con quell’uomo (che poi si rivelerà nemico): da una parte il passato, l’America, dall’altra la Russia, il futuro, lui dice. Al di là della componente di rischio derivata dalle conseguenze della sua scelta e al netto di tutto ciò che si potrebbe scrivere intorno al rapporto uomo/natura espresso in questo film, sì, determinante ma meno di altri aspetti, Leshka è costretto a raccogliere e mettere in ordine la sua esistenza. Come in un rito d’iniziazione, il ragazzo si specchia nel senso del bisogno di uscire dal suo mondo per raggiungere la sua amata illusione. In un attimo, prorompente e inatteso, entra in gioco la fecondità e il carattere costitutivo dell’esperienza del desiderio: la vertigine, la perdita di padronanza, la “sconfitta” della volontà. Questa opera prima del russo Philipp Yuryev (Mosca, 1990), alternando realismo poetico e gusto per la narrazione, scandisce con forza il significato del desiderare come cifra che costituisce l’umano nella sua interezza: qualcosa che illumina, che orienta e che si situa aldilà della soddisfazione e dell’insoddisfazione, incessantemente colpito dal proliferare di pianeti abitati da fantasmi. Nella rivendicazione fantasmatica della sua vocazione, Kitoboy prima sgretola, poi coagula l’atto di trasformazione del desiderare che conduce alla scena umana.