Grace e Jackson sono un’affiatata coppia di trentenni. Lei, scrittrice in cerca di ispirazione, è incinta; lui decide che per crescere il loro bambino il luogo ideale è la casa dello zio, morto anni prima in circostanze che per ora è meglio non dire. Il luogo è isolato, immerso in una natura selvaggia e matrigna; la casa si mostra con il peso degli anni dell’abbandono, con i lampadari in terra, il pavimento cosparso di foglie e un problema di topi da risolvere. Grace e Jackson sembrano non fare caso ai segnali inquietanti di quel supposto nido d’amore: esplorano, immaginano il futuro, fanno selvaggiamente l’amore. Ma dopo il parto nulla sarà lo stesso: Jackson è spesso in viaggio per lavoro (quale poi?) con un pacchetto di preservativi sempre diverso nel cassettino della macchina, quasi a suggerire pulsioni di sesso occasionale; Grace non è più la stessa, è abbandonata a sé stessa nella gestione della casa, del bambino, poi anche di un cane, non riesce a scrivere un rigo del Grande Romanzo Americano che aveva in mente, accudisce il figlio con un amore contraddittorio e violento, che sembra a tratti tracimare nell’odio. Grace è sempre più instabile, aggressiva, fuori controllo e l’ombra di protezione che le offre la madre di Jackson – Sissy Spacek, amorevole e inquietante allo stesso tempo come una sorta di Carrie cresciuta – non fa altro che inasprire le sue reazioni incontrollabili più che incontrollate.
Lynne Ramsay torna a Cannes a distanza di otto anni da You Were Never Really Here con una storia di maternità e d’amore che è in primo luogo la descrizione del punto di rottura di una donna alle prese di qualcosa di più di una semplice depressione post-parto. La nascita del figlio è infatti una sorta di detonatore che libera le inibizioni e accende il dolore allo stesso tempo. Grace vuole fare l’amore mentre il marito sembra pensare costantemente ad altro; si comporta in maniera sempre più animale affogando nella natura matrigna che la circonda; cerca di svegliare il suo dolente torpore attraverso l’autolesionismo. In un contesto che si fa sempre più incendiario, simbolicamente rappresentato dall’incendio (immaginario?) del bosco ai confini di casa che apre e chiude il film. Jennifer Lawrence dà corpo e anima alla sua protagonista, un corpo che porta i segni della maternità senza affievolire una femminilità ferina e desiderante, oppressa da un dolore lancinante: un lavoro – sul personaggio e sul corpo – praticamente speculare a quello del Mother! di Darren Aronofski, delineato in quel caso da uno sguardo prettamente maschile. Ramsay invece lavora di sottrazione con i suoi personaggi maschili, quasi depotenziandoli: Jackson (Robert Pattinson) è un marito apparentemente amorevole e coscienzioso ma incapace di qualunque iniziativa, caratterialmente monocorde; suo padre – Nick Nolte – è un vecchio affetto da demenza senile; lo zio defunto, vecchio proprietario della casa della coppia, è morto suicidandosi letteralmente “sparandosi nel culo”. Die My Love, tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice argentina Ariana Harwicz è l’anamnesi di una donna (e di un rapporto) in caduta libera, un amour fou destinato alla dannazione, un affresco che descrive – o tenta di farlo – il lato oscuro del femminile.
Ramsey gonfia la propria messa in scena – assecondata da un magnifico lavoro sull’immagine del direttore della fotografia Seamus McGarvey, fatto di colori brillanti e minime profondità di campo, quasi a isolare i protagonisti dal contesto in cui si muovono – giocando sul piano dell’inquietudine, della preparazione alle esplosioni di rabbia e violenza che puntellano la narrazione. Il sonoro alterna una colonna sonora dissonante, canzoni di repertorio e un tappeto di rumori degno di un film dell’orrore. Cose che in parte Die My Love è. Purtroppo l’equilibrio tra racconto e rappresentazione è troppo spesso instabile; alcune divagazioni, volte a sottolineare l’inquietudine di Grace, sono accennate e non risolte, quasi lasciate cadere; la programmatica ricerca di uno stato ansiogeno assopisce l’attenzione malgrado dal film si esca con una sensazione malsana e perturbante. Die My Love è un film che vuole consapevolmente esagerare ma che in quell’esagerazione – in quel rilancio continuo di urla, di botte, di malessere, di scene madri – finisce parzialmente per depotenziarsi rischiando uno stato di inerzia.