Una proiezione di un mondo personale e intimo, una percezione di sé stessa che la protagonista sembra volere annullare con le sue occasionali avventure sessuali. Segnata da bambina da un evento drammatico durante il quale fu incapace di aiutare la sorella che stava affondando nel fango, ma che per fortuna ebbe la forza di salvarsi da sola, Nina sembra volere riscattare con una vita divisa tra la luce e l’ombra, tra la legalità e l’illegalità le proprie colpe che pesano ancora sulla sua coscienza. È in quell’essere mostruoso che Nina riflette una propria morte attraversando la vita dentro scenari sempre accidentati e pericolosi, come in quella ennesima visione ripresa in un estenuante piano sequenza, durante il quale si assiste allo scatenarsi lento e inesorabile di una tempesta che avanza sulla pianura georgiana in una spaventosa prospettiva apocalittica. Dea Kulumbegashvili non vi è dubbio che abbia in mente un formalismo rigoroso per il suo cinema ed è in questa inflessibilità che va anche ricercata quella traccia di debolezza di un film come April che resta oscuro in quella omessa esplicitazione di ogni segno e significato, ma proprio per questo ricco di un proprio fascino segreto che cattura l’anima dello spettatore che sa di trovarsi solo ad un palmo di mano dal vero, da quella piena comprensione di un testo filmico che sa essere inafferrabile come la stessa sua protagonista. Ma questa idea di cinema, nel cui formalismo va ricercata la ragione d’essere stessa delle operazioni registiche, non vi è dubbio che sia maturata dentro una tradizione che appartiene di diritto a quella scuola e basterà ricordare, anche a prescindere da Otar Iosseliani, qualche altro film georgiano che sia riuscito a superare i filtri di un confine culturale difficile a volte da abbattere – che solo grazie ai festival diventa visibile seppure dentro un circuito limitato – come The criminal man di Dmitri Mamuliya o lo stesso e più recente Cosa vediamo quando guardiamo il cielo di Aleksander Koberidze o, il più recente Blackbird blackbird di Elene Naveriani.
Dea Kulumbegashvili fa parte di questa corrente formale secondo la quale l’estetica del film diventa concetto indissolubile da ciò che costituisce la sostanza del film e quindi Nina, con il suo peso esistenziale, quel senso di morte incombente che dentro di lei alberga, diventa un tutt’uno con gli elementi naturali e con loro si confonde in una ideale appartenenza che diventa materia onirica, confine esistenziale e vertigine maledetta di una colpa antica e non emendabile. April sembra aprire voragini di senso dentro il suo incedere con i suoi lunghissimi fuori campo. E la lunga sequenza, quasi un fuoricampo, dell’aborto praticato sulla ragazza minorenne sordomuta con i suoi lamenti soffocati in una fissità della camera che inquadra solo pezzi di una parte più grande, di una scena che ha del sanguinoso, diventa una lama tagliente che apre ferite e orizzonti di senso del tutto inattesi. È un cinema che naviga controcorrente rispetta all’inarrestabile velocità di assorbimento delle immagini che fa parte dei tempi nostri, ostinatamente insensibile ad ogni pulsione di modernità, inattuale, eppure vivo, nel racconto cupo e impantanato in un fango esistenziale dal quale non si esce e che, suggerisce lo stesso film, diventa contemplazione inerme di qualcosa che incombe e che non sembra possibile evitare.